di Pier Giorgio Cecchini, Dottore Commercialista in Modena
Atti del Convegno La “Mini-Riforma” della legge fallimentare Composizione negoziata della crisi di impresa, concordato preventivo semplificato, accordi di ristrutturazione e convenzione di moratoria” – Decreto Legge 24 agosto 2021 n. 118
La composizione negoziata della crisi mette a disposizione dell’imprenditore diversi strumenti processuali e contrattuali che agevolano il reperimento di finanziamenti, la collocazione sul mercato dell’impresa, la conservazione dei contratti pendenti e la rideterminazione delle loro clausole.
Si tratta di strumenti approntati col lodevole scopo della conservazione della continuità aziendale e della migliore soddisfazione dei creditori, ma che in alcuni casi trasferiscono ingenti costi e rischi della ristrutturazione sui creditori.
Sommario
1 Conservazione coattiva dei contratti pendenti 3
2 Sopravvivenza parziale delle clausole ipso facto. 6
3 “Rinegoziazione” coattiva: il legislatore varca una soglia. 7
4 Segue: piccolo vademecum per il tribunale. 10
5 I finanziamenti prededucibili 14
6 Segue: il cash flow test del tribunale. 17
7 La cessione dell’azienda. 22
1 Conservazione coattiva dei contratti pendenti
Precisa l’art. 6, comma 5, D.L. 118/2021 che i creditori interessati dalle misure protettive non possono unilateralmente: (i) rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti, (ii) provocarne la risoluzione, (iii) anticiparne la scadenza o (iv) modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti anteriori alla richiesta delle misure protettive.
Qui l’articolato nazionale ricalca pedissequamente l’art. 7.4, comma 1, Direttiva (UE) 2019/1023 (“Direttiva”)[1], il quale però obbliga gli stati membri a recepire tale disciplina soltanto per i contratti pendenti definiti essenziali, cioè necessari per la continuazione della gestione corrente dell’impresa, mentre lascia loro la facoltà di estendere la disciplina anche ai contratti non essenziali.
L’Italia ha scelto quest’ultima opzione, probabilmente per impedire pretestuose eccezioni dell’altro contraente (di seguito anche controparte) circa la natura essenziale o meno della prestazione tali da pregiudicare l’operatività day-by-day dell’impresa.
L’ordinamento italiano conosce già una disposizione di tenore simile a quella qui commentata: l’art. 1460, comma 2, c.c. prevede che una parte non può avvalersi dell’eccezione di inadempimento, cioè non può rifiutarsi di adempiere la propria prestazione, nel caso in cui l’altra non adempia se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario a buona fede.
Attenti concorsualisti[2] hanno osservato che tale disposizione è applicabile al concordato preventivo, considerato che l’imprenditore non adempie il pagamento dei debiti pregressi a causa di un divieto di legge e non invece per una scelta deliberata, e che, oltretutto, il credito di controparte gode della prededuzione.
La norma non pare applicabile, invece, nella composizione negoziata, dove il debitore ha facoltà di pagare i crediti anteriori (e ciò per evitare un effetto-domino, art. 6, comma 1), e la controparte è in una posizione assai meno tutelata rispetto al concordato poiché non gode di prededuzione né può avviare azioni esecutive e cautelari sui nuovi crediti[3].
Si giustifica dunque una norma esplicita nel senso indicato all’interno della composizione negoziata.
Tuttavia la continuazione coattiva dei contratti pendenti danneggia certamente l’altro contraente, poiché lo costringe a continuare a rifornire un’impresa in crisi e quindi ad accumulare ulteriore credito e altri rischi.
Per questo motivo, l’art. 7.4, comma 2 della Direttiva prevede che gli stati membri possono garantire alle controparti salvaguardie utili ad evitare ingiusti pregiudizi.
Le salvaguardie potrebbero consistere nelle misure, previste nella legge fallimentare e nel CCI ma purtroppo obliterate nel D.L. 118/2021, della prededuzione e recupero coattivo dei nuovi crediti; ma anche, secondo dottrina internazionale[4], in misure backward looking, come l’obbligo di pagamento dei debiti anteriori e la costituzione di garanzie su beni propri, oppure forward looking, come la concessione di fideiussioni bancarie o il riconoscimento di una preferenza nel rimborso.
Misure in assenza delle quali, secondo la stessa dottrina, potrebbero porsi dubbi di tenuta costituzionale della disciplina, realizzandosi una sorta di espropriazione[5] sui crediti a maturare; inoltre vi è una possibile violazione del principio no creditor worse off than liquidation espresso dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[6].
Il legislatore italiano invece non recepisce la previsione della Direttiva e dunque impone solo rischi e nessuna contropartita all’altro contraente di contratti pendenti.
Solo i contratti pendenti sono oggetto di prosecuzione coattiva e la loro definizione più precisa possiamo trovarla nell’art. 97 CCI: è pendente il contratto ancora ineseguito o non compiutamente eseguito nelle prestazioni principali da entrambe le parti[7].
La norma rende la controparte “prigioniera” del contratto soltanto in caso di mancato pagamento di crediti anteriori alle misure protettive. Qualora, invece, a non essere pagati alla scadenza siano i crediti “posteriori”, la controparte potrà nuovamente eccepire l’inadempimento del debitore.
Più di un creditore cercherà di sottrarsi alla disciplina sostenendo che quello stipulato con lui non è un contratto pendente, data la genericità della classificazione giuridica; il fenomeno è già noto a livello internazionale, ove la nozione di executory contracts è discussa e oggetto di continue controversie giudiziarie[8].
Allo stesso modo, i creditori più strutturati tenteranno di sfruttare a loro favore la circostanza che l’art. 6, comma 5, D.L. 118/2021 (e così pure il corrispondente articolo 7.4, comma 2 della Direttiva) individua quale unico inadempimento irrilevante quello pecuniario, in forza dell’inciso “… per il solo fatto del mancato pagamento di crediti anteriori”.
Ciò potrebbe portare a due fenomeni: la proliferazione di clausole di risoluzione dei contratti per inadempimenti diversi dal mancato pagamento di crediti anteriori e la corsa allo scioglimento dei contratti alle prime avvisaglie di crisi.
Il primo rischio potrebbe essere rimediato prevedendo che neppure gli inadempimenti non pecuniari facoltizzino la controparte ad una modifica o alla risoluzione del contratto pendente; il secondo, prevedendo l’inefficacia di risoluzioni o modifiche al rapporto contrattuale attuate entro un dato termine dall’inizio delle misure protettive[9].
In conclusione, la prosecuzione forzosa dei contratti pendenti espone la controparte al rischio di credito sulle nuove forniture, e pertanto dovrebbe accompagnarsi alla prededuzione autorizzata giudizialmente e al libero esercizio delle azioni esecutive e cautelari per i crediti così sorti.
2 Sopravvivenza parziale delle clausole ipso facto
La controparte di contratti pendenti potrebbe sottrarsi al vincolo contrattuale e alle obbligazioni che ne conseguono semplicemente avvalendosi di clausole contrattuali ad hoc, definite dalla Direttiva ipso facto, indipendentemente dall’esistenza di partite creditorie scadute.
Sono ipso facto le clausole che legittimano la controparte a rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti, provocarne la risoluzione, anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto dell’accesso ad un procedimento di ristrutturazione.
La Direttiva sul punto è lapidaria, imponendo agli stati membri di prevedere che la richiesta dello stay o, se precedente, l’apertura di un procedimento di ristrutturazione non possano di per sé legittimare la controparte ad avvalersi della clausola ipso facto (art. 7.5 della Direttiva).
Peraltro, la legge fallimentare e il Codice della Crisi e dell’Insolvenza già prevedono l’inefficacia di tali clausole, seppure con norme formulate in modo meno analitico rispetto alla Direttiva (art. 186-bis l. fall., artt. 12, 95 e 97 CCI).
Invece la disciplina della composizione negoziata nulla dispone salvo per gli affidamenti bancari. Soccorre tuttavia la già commentata disposizione dell’art. 6, comma 5, D.L. 118/2021, ma soltanto quando: (i) siano state richieste misure protettive, (ii) il creditore sia interessato da tali misure e (iii) vanti crediti scaduti.
Ne consegue che nella composizione negoziata le clausole ipso facto manterranno la validità:
- fino a quando il debitore chieda misure protettive (e potrebbe non chiederle affatto);
- anche dopo averle richieste, quando esse non riguardino il creditore (è quindi sconsigliabile chiedere inibitorie troppo selettive);
- anche dopo averle richieste, quando la controparte del contratto pendente non sia creditore[10].
Regole diverse valgono per gli intermediari finanziari: precisa infatti l’art. 4, comma 6 che l’accesso alla composizione negoziata della crisi non costituisce di per sé causa di revoca degli affidamenti bancari concessi all’imprenditore; quindi essi restano in vita indipendentemente dalle misure protettive.
Ciò all’opposto di quanto previsto nel concordato dall’art. 182-quinquies, comma 3, l. fall., ove per mantenere le linee di credito autoliquidanti già esistenti è richiesta l’autorizzazione giudiziale[11].
La norma non chiarisce se la sopravvivenza degli affidamenti possa essere interpretata nel senso che l’imprenditore possa continuare a farne uso per la parte accordata ma non ancora utilizzata oppure, alternativamente, che nessun ulteriore utilizzo gli sia consentito pur non potendo la banca recedere dal contratto e pretendere l’immediato rimborso del fido utilizzato.
3 “Rinegoziazione” coattiva: il legislatore varca una soglia
La disciplina della composizione negoziata non contiene disposizioni per lo scioglimento dei contratti; ciò in conformità al considerando n. 2 della Direttiva, il quale precisa che lo scioglimento (nonché le modifiche unilaterali) dei contratti da parte della debitrice dovrebbero rispettare i requisiti generali previsti dal diritto nazionale. In sostanza la Direttiva sceglie un approccio poco invasivo nei procedimenti di ristrutturazione preventiva.
Peraltro, una disciplina che consentisse all’imprenditore di sfilarsi da contratti divenuti non più redditizi anche in caso di pre-crisi potrebbe prestarsi ad abusi, come avvenuto negli USA nel settore dell’intrattenimento, dove molti artisti hanno fatto domanda di accesso al Chapter 11 per ottenere lo scioglimento giudiziale di contratti di agenzia e di produzione troppo onerosi.
Vi ricorse ad esempio cantante Toni Braxton, il cui singolo Unbreak my heart totalizzò nel 1996 vendite per 170 milioni di dollari, mentre lei dichiarò di aver ricevuto soltanto 1.972 dollari a causa di un meccanismo penalizzante di determinazione delle royalties e di partecipazione ai costi promozionali[12].
A differenza della Direttiva, invece, l’art. 10, comma 2, D.L. 118/2021 permette all’imprenditore in crisi di modificare il contenuto dei contratti, prima per via consensuale tramite l’intervento mediatore dell’esperto, e poi, in caso di mancato accordo, per via autoritativa tramite l’intervento del tribunale. Non possono tuttavia formare oggetto di modificazioni né volontaria né forzosa i contratti di lavoro dipendente.
La giurisprudenza è giunta da tempo a individuare un obbligo di rinegoziazione, ritenendo che il dovere di buona fede, il quale si ricollega a un generale dovere di solidarietà, debba estendersi alla salvaguardia degli interessi altrui ove ciò non comporti un sacrificio apprezzabile[13]. Tuttavia, tale responsabilità determinerebbe unicamente un obbligo risarcitorio.
Ha invece propugnato la rideterminazione coattiva del contenuto dei contratti, a seguito del diffondersi della pandemia, la Corte di Cassazione con la Relazione Tematica del Massimario e del Ruolo n. 56 dell’8 luglio 2020. In tal documento si sostiene che la violazione dell’obbligo di rinegoziare in buona fede il rapporto squilibrato non comporti solo il ristoro del danno, ma esponga anche la controparte all’esecuzione specifica di tale obbligo ex art. 2932 c.c.[14].
I confini entro i quali la rideterminazione giudiziale del contenuto dei contratti ex D.L. 118/2021 (di seguito: rideterminazione) può operare sono stretti: (i) essa può riguardare i soli contratti ad esecuzione continuata o periodica o ad esecuzione differita, (ii) la prestazione deve essere divenuta eccessivamente onerosa a causa della pandemia da Covid, (iii) deve essere assicurata l’equità del provvedimento attraverso le seguenti cautele e prescrizioni:
- deve essere rispettato il contraddittorio preventivo tra tribunale, esperto e parti interessate;
- il provvedimento deve essere indispensabile ad assicurare la continuità aziendale[15] e la sua durata deve essere limitata al tempo strettamente necessario ad ottenere tale risultato;
- le condizioni del contratto devono essere rideterminate equamente, assicurando l’equilibrio tra le prestazioni, anche tramite indennizzo.
La norma ricalca l’art. 1467 c.c. in materia di eccessiva onerosità sopravvenuta dei contratti, sostituendo agli avvenimenti straordinari e imprevedibili gli effetti pandemici, omettendo la tutela c.d. demolitoria, cioè la risoluzione del contratto su richiesta della parte debole, e affidando la tutela manutentiva, cioè la modifica equa delle condizioni del contratto, alle parti con l’ausilio dell’esperto e, in assenza di accordo, al tribunale.
Ad essere interessati dalla disciplina sono soltanto i contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita; per ragioni logiche, essi devono essere ancora pendenti, anche se la norma non lo precisa. Correttamente, la disciplina opera indipendentemente dal fatto che l’altro contraente sia anche creditore o meno.
Sono contratti ad esecuzione continuata o periodica, altrimenti detti contratti di durata, quelli che obbligano le parti, o una di esse, ad una prestazione continuativa o periodicamente ripetuta nel tempo.
Continuativa o periodica può essere una prestazione di dare (ad esempio somministrazione di gas), di fare (ad esempio contratto di lavoro, appalto di servizi di manutenzione) o di non fare (ad esempio l’impegno di un imprenditore a non fare concorrenza ad un altro imprenditore).
Sono contratti ad esecuzione differita quelli in cui la consegna del bene o il pagamento del prezzo o entrambi sono differiti ad un termine successivo alla conclusione del contratto; ciò può anche derivare dall’aver frazionato l’adempimento, come nel caso della vendita a rate.
Rinegoziazione e rideterminazione possono essere invocate quando la prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa. Per chi, non è precisato; tuttavia, essendo la norma posta a tutela della continuità aziendale, possiamo dare per scontato che l’eccessiva onerosità debba essere quella che colpisce l’impresa in crisi, e non invece la sua controparte.
Inoltre, la norma non precisa quale debba essere la controparte contrattuale; quindi, la rideterminazione potrà coinvolgere non soltanto i fornitori ma anche i clienti.
Va notato che il legislatore non ha adottato la stessa tecnica dell’art. 91 Decreto Cura Italia (DL 18/2020), ove legava l’esclusione del debitore da responsabilità per inadempimenti ex artt. 1218 e 1223 c.c. non agli effetti della pandemia, bensì alle sole misure di contenimento previste nel medesimo decreto, identificate come causa di forza maggiore.
Il più ampio riferimento agli effetti della pandemia, anziché soltanto agli effetti delle misure di contenimento, può far ricomprendere tra le cause che giustificano la modifica giudiziaria dei contratti anche i consistenti aumenti del prezzo delle materie prime, il quale è in parte frutto di dinamiche internazionali indotte dal Covid e non soltanto di quelle determinate dal lockdown nazionale; aumenti che sta mettendo a repentaglio la continuità aziendale di numerose imprese.
Dato il tenore letterale della norma, rinegoziazione e rideterminazione possono riguardare qualunque clausola del contratto, sia di natura economica o giuridica, e tanto è stato confermato anche da membri della commissione di riforma. Potranno quindi essere modificati aspetti essenziali, quali il prezzo e le condizioni di pagamento.
Il contratto potrà, inoltre, essere sospeso temporaneamente.
4 Segue: piccolo vademecum per il tribunale
Viola un dogma dell’economia di mercato – l’autonomia contrattuale – consentire all’autorità giudiziaria di imporre prezzi più bassi ai fornitori o più alti ai clienti, ed in generale di cambiare le condizioni di un contratto già stipulato[16].
Tuttavia la portata della disciplina di cui all’art. 10, comma 2 è piuttosto moderata: essa ha un’efficacia di fatto temporanea, in quanto gli effetti della pandemia andranno progressivamente a scemare fino ad annullarsi del tutto, ed inoltre il legislatore si è sforzato di mantenere entro limiti angusti gli spazi dell’intervento giudiziale.
Ritengo tuttavia che la portata dell’art. 10, comma 2 dovrebbe essere ulteriormente contenuta, quantomeno in via interpretativa.
In primo luogo, la rideterminazione coattiva del contenuto del contratto dovrebbe essere riservata ai soli casi di crisi o insolvenza dell’impresa ed invece esclusa nella pre-crisi, cioè ove vi sia evidenza della sostenibilità dei debiti e di prospettiva di continuità aziendale per almeno i successivi sei mesi (art. 13, comma 1, CCI). Consentire anche alle imprese in pre-crisi di accedervi significherebbe distorcere la concorrenza a loro favore senza giustificato motivo.
In secondo luogo, il tribunale dovrebbe verificare preliminarmente se l’impresa abbia preliminarmente adottato iniziative di carattere industriale per porvi rimedio (fase, questa, prevista nella composizione assistita; art. 18, comma 4, CCI). Infatti, sarebbe incongruo imporre un provvedimento così drastico sulla controparte quando l’imprenditore non abbia ancora esperito nessun serio tentativo di superamento della crisi attraverso, ad esempio, il contenimento dei costi.
In terzo luogo il tribunale dovrebbe verificare che tra effetti della pandemia e eccessiva onerosità della prestazione sussista un nesso causale e non soltanto una consecuzione temporale, per non incorrere nell’errore post hoc, ergo propter hoc (dopo di ciò, quindi a causa di ciò).
In quarto luogo il tribunale dovrebbe disporre del piano d’impresa, sebbene il decreto dirigenziale del 28 settembre 2021 alla sez. I, n. 5 esoneri l’impresa quando i flussi al servizio del debito generati dalla gestione sono sufficienti a consentirne la sostenibilità; il piano è necessario per verificare se i vantaggi arrecati dalla rideterminazione siano apprezzabili.
In quinto luogo, la rideterminazione dovrebbe coinvolgere soltanto controparti per le quali essa sia sostenibile, e ciò per contenere l’effetto-domino[17] (che comunque non è eliminabile del tutto). Di conseguenza il tribunale dovrebbe verificare in sede di contraddittorio e tramite l’ausiliario o l’esperto se la rideterminazione sia compatibile con la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’altro contraente.
Infine, la rideterminazione giudiziale del contenuto dei contratti dovrebbe essere esercitata soltanto: (i) verso le controparti che operino in una situazione di monopolio e (ii) che si avvantaggino ingiustamente della situazione di dipendenza economica del debitore.
La teoria economica liberista ritiene che quando la cooperazione tra le parti contrattuali è strettamente volontaria, gli scambi hanno luogo soltanto se entrambe ne traggono un beneficio; pertanto, i prezzi e le altre condizioni contrattuali liberamente stabiliti coordinano l’attività di milioni di persone, ognuna alla ricerca del proprio interesse, in modo tale da beneficiare tutti[18].
Interferire con il libero sistema dei prezzi ha conseguenze indesiderate sia macro che micro economiche.
Quanto a queste ultime: la modifica contrattuale che non sia frutto di un accordo volontario comporta inevitabilmente che una parte sia avvantaggiata e l’altra danneggiata, nonostante l’eventuale indennizzo.
Infatti, se entrambe le parti traessero un vantaggio dalla rinegoziazione, avrebbero già raggiunto volontariamente l’accordo sulla modifica del contratto sbilanciato nella precedente fase negoziale davanti all’esperto; se al contrario non avessero raggiunto l’accordo, la parte svantaggiata avrebbe chiesto la risoluzione del contratto ex art. 1467 c.c. per potersi rivolgere ad un altro fornitore[19].
La soluzione più efficiente per il sistema è dunque quella di conservare la volontarietà dello scambio senza coartare la volontà dell’altro contraente; tale soluzione esprime la massima cooperazione e solidarietà tra le parti, perché entrambe traggono benefici.
Occorrerebbe dunque limitare la rideterminazione giudiziale ai soli contratti stipulati con fornitori in situazione monopolistica (o quasi-monopolistica), cioè ai casi in cui l’imprenditore in crisi non può sciogliersi dal contratto sbilanciato, non disponendo di fornitori alternativi a cui rivolgersi per l’acquisto di beni e servizi essenziali alla prosecuzione dell’attività.
Non basta: la rideterminazione dovrebbe operare unicamente quando il monopolista si stia avvantaggiando ingiustamente della dipendenza economica del debitore, poiché essa non può avere il mero fine di trasferire l’eccessiva onerosità determinata dalla pandemia ad un soggetto incolpevole. Esula dalla portata della norma, ad esempio, il monopolista che si limiti a ribaltare sull’imprenditore in crisi un aumento di prezzo delle materie prime che egli stesso abbia subito.
Il riferimento a situazioni monopolistiche e quasi-monopolistiche è volutamente ampio per ricomprendere nella fattispecie non soltanto i monopoli pubblici o legali, oramai rarissimi dopo l’ondata di privatizzazioni delle scorse decadi, ma anche quelli privati e di fatto, ed in particolare i cc.dd. “situational monopolies”, dove vi è un solo fornitore o comunque un fornitore dominante in una determinata area e per un determinato periodo di tempo.
Può essere il caso del fornitore di bitume di un’impresa di pavimentazioni stradali: tale materia prima si solidifica in un’ora, e ciò comporta la necessità di approvvigionarsi nelle vicinanze del settore stradale da asfaltare, ad una distanza massima che dipende dalla viabilità del tragitto e dal grado di coibentazione del mezzo di trasporto. Se nel raggio di 35-50 km vi è un unico fornitore, egli si troverà in posizione monopolistica.
Allo stesso modo subisce il monopolio l’impresa che produca farmaci per una multinazionale del farmaco quando quest’ultima le imponga di acquistare i principi attivi di un farmaco presso un predeterminato fornitore certificato.
Qualunque sia l’origine del monopolio (produttiva, contrattuale etc.), se il fornitore è uno soltanto o se è dominante, l’art. 1467 c.c. non costituisce un valido rimedio a fronteggiare le sopravvenienze da pandemia; in tal caso, valutazioni ideologiche a parte, è più tollerabile (o meno intollerabile) rideterminare il contenuto del contratto.
Potrà non piacere, ma non sono in posizione monopolistica i fornitori di gas e corrente elettrica, poiché è sempre possibile sostituirli, essendo l’approvvigionamento e la vendita completamente aperti alla concorrenza. Vero è che i concessionari delle reti che attuano il trasporto e distribuzione del gas naturale operano in regime di monopolio legale nella relativa area di concessione, ma essi sono sottoposti a regolazione da parte dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) con il fine di garantire l’accesso non discriminatorio alle relative infrastrutture.
Alla luce di quanto esposto in questo ultimo punto, il tribunale non dovrebbe assecondare la richiesta del debitore di modificare le condizioni di un contratto stipulato in un contesto concorrenziale in cui operino più fornitori di beni e servizi fungibili.
Ciò quand’anche egli motivi l’istanza sostenendo di non potersi rivolgere a fornitori alternativi avendo constatato che essi praticano condizioni peggiorative rispetto a quelle che il debitore vorrebbe imporre giudizialmente alla controparte corrente.
Infatti, questa argomentazione (umanamente comprensibile, perché nessuno è mai soddisfatto di come il reddito è distribuito e ne vorrebbe una fetta maggiore per sé) dimostra al contrario ed in modo lampante che la rinegoziazione forzosa, se attuata, cagionerebbe un danno ingiusto alla all’altro contraente, vincolandolo a condizioni non di mercato che nessun altro fornitore praticherebbe.
5 I finanziamenti prededucibili
Nel corso delle trattative l’imprenditore è libero di contrarre finanziamenti, ma ciò può risultare difficoltoso, soprattutto qualora sia stata formulata, e quindi pubblicata, la richiesta di misure protettive.
La Direttiva, con l’intento di incoraggiare l’erogazione di finanziamenti verso imprese in crisi, ha previsto tre forme di tutela. Dispone infatti l’art. 17 che i finanziamenti interinali (cioè erogati mentre pendono le trattative) ed in esecuzione di piani di ristrutturazione:
- non possano essere dichiarati nulli, annullabili o inopponibili (cioè non revocabili);
- non possono determinare responsabilità civili o penali in capo all’erogatore;
- nella successiva eventuale insolvenza possono essere rimborsati in via preferenziale.
Le prime due previsioni hanno valore di precetto nei confronti degli stati membri mentre, sorprendentemente, la terza è facoltativa e non è neppure espressa come raccomandazione[20].
Non è però chiaro come un investitore possa essere disponibile a fornire nuova finanza ad una impresa in crisi senza una qualche forma di priorità nel rimborso rispetto agli altri creditori, e sarà interessante verificare nei prossimi mesi se vi saranno stati membri che, nel recepire la Direttiva, riterranno di non avvalersi di tale apparentemente irrinunciabile privilegio.
Il D.L. 118/2021 sceglie (per fortuna) di recepire tutte e tre le misure elaborate dalla Direttiva.
Innanzi tutto, il decreto prevede all’art. 10 che il tribunale possa autorizzare la prededuzione ex art. 111 l. fall. dei finanziamenti all’impresa.
L’autorizzazione, precisa la norma, presuppone la preventiva verifica, da parte del tribunale della funzionalità dei finanziamenti rispetto: (i) alla continuità aziendale e (ii) alla migliore soddisfazione dei creditori. L’una e l’altra verifica presuppongono che il debitore produca un piano d’impresa, almeno nelle sue linee portanti.
Il tribunale dovrebbe preliminarmente verificare se l’impresa in crisi abbia adottato le possibili misure per porvi rimedio; tanto è previsto in tema di composizione assistita dall’art. 18, comma 4, CCI, ed a giusta ragione, considerato che dovrebbe essere imposto agli altri creditori l’onere della prededuzione ai nuovi finanziatori soltanto quando sia stato preliminarmente esperito ogni tentativo industriale (in primis, la riduzione dei costi) di superamento della crisi.
Sono autorizzabili tre tipi di finanziamenti: (i) i finanziamenti prededucibili in generale, (ii) i finanziamenti erogati dai soci, (iii) i finanziamenti contratti da società appartenenti ad un gruppo di cui all’art. 13, cioè appartenenti ad un gruppo dove almeno due società abbiano presentato istanza di accesso alla composizione negoziata.
Per come è formulata la norma, possano beneficiare della prededuzione soltanto i finanziamenti discendenti, in quanto finanziamenti soci, e non anche quelli incrociati o ascendenti, quando siano erogati all’interno di gruppi in cui ad accedere alla composizione negoziata sia la sola società che chiede la prededuzione (gruppi, quindi, estranei all’art. 13).
Considerando, al contrario, suscettibili di prededuzione anche i finanziamenti cross-stream e up-stream, la fattispecie normativa di cui al punto (iii) non avrebbe più ragione di esistere, in violazione del principio di salvaguardia del risultato interpretativo utile.
Non è replicata la disposizione contenuta nella legge fallimentare e nel Codice della Crisi e Insolvenza secondo cui la prededuzione dei finanziamenti soci opera fino all’80% del loro ammontare; pertanto, essa può essere autorizzata per l’intera somma erogata.
Giova qui precisare che, con altra disposizione (art. 13, comma 9), si è previsto che non opera la postergazione dei finanziamenti di gruppo di cui agli artt. 2467 e 2497-qunquies c.c. “pattuiti” dopo la presentazione dell’istanza di composizione negoziata, salvo che l’esperto, informato preventivamente dell’operazione dall’imprenditore, abbia comunicato il proprio dissenso iscrivendolo nel registro delle imprese.
La disposizione, destinata anch’essa a incentivare la finanza esterna, è collocata in un articolo, il 13, che riguarda gruppi in cui almeno due società abbiano presentato l’istanza, ma per il suo tenore letterale appare di applicazione universale; quindi, la disapplicazione della postergazione dovrebbe valere anche per i finanziamenti infragruppo erogati all’unica società del gruppo che abbia presentato l’istanza.
Come noto l’art. 2497 quinquies c.c. è formulato in modo ambiguo e non chiarisce se la postergazione si applichi anche ai finanziamenti up-stream, ma ciò è irrilevante ai fini che qui ci occupano, nel senso che il finanziamento ascendente sarà sempre rimborsabile liberamente; perché delle due l’una: o il finanziamento ascendente è postergato ab origine, ed allora cessa di esserlo in caso di presentazione di istanza, o non lo è, ed allora non è neppure interessato dall’art. 13, comma 9.
L’esonero da postergazione è totalmente svincolato dall’aver chiesto o meno l’autorizzazione alla prededuzione.
Tornando alla prededuzione, l’art. 10 non individua alcuna forma tecnica specifica, e quindi essa spetta ai finanziamenti in qualsiasi forma effettuati, ivi compresa l’emissione di garanzie e controgaranzie; per essere più precisi, in questi ultimi casi la prededuzione opererà sul credito del garante derivante dall’escussione della garanzia.
L’eventuale esistenza di misure protettive non ostacola la concessione di garanzie sul patrimonio del debitore: prevede infatti l’art. 6 che dalla pubblicazione nel registro delle imprese del relativo provvedimento “i creditori non possono acquisire diritti di prelazione se non concordati con l’imprenditore”, potendo quest’ultimo, quindi, concederle in autonomia, seppur previa informativa all’esperto, trattandosi di straordinaria amministrazione.
Nel caso la composizione negoziata sfoci in concordato o accordo di ristrutturazione dei debiti, l’art. 12, comma 1, prevede correttamente che “la conservazione degli effetti degli atti autorizzati” (ergo: la prededuzione) si abbia solo se le procedure siano state omologate; quindi dopo tale evento si pota procedere al pagamento alla scadenza dei debiti, mentre in caso di caducazione della procedura prima dell’omologazione, la prededuzione potrà essere fatta valere solo nel successivo fallimento.
L’art. 10 del Decreto non distingue tra finanziamenti interinali erogati in pendenza di trattative e finanziamenti in esecuzione di un accordo oramai concluso, ma la disciplina riguarda certamente entrambi, come confermato dal decreto dirigenziale, che li menziona e li tratta separatamente.
Invece la Direttiva li distingue esplicitamente all’art. 17, attribuendo agli stati membri la facoltà di subordinare la preferenza nel rimborso: (i) ad un controllo ex ante per i finanziamenti interinali, e (ii) all’omologazione del piano di ristrutturazione per quelli in esecuzione.
Nella composizione negoziata si è dovuto necessariamente prevedere il controllo giudiziale ex ante per entrambi i tipi di finanziamenti, non essendo prevista una fase di omologazione; stessa procedura, dunque, ma con diversi criteri autorizzativi.
Quando il finanziamento è interinale, occorre tenere conto che al momento della presentazione dell’istanza non è ancora noto se le trattative avranno successo e quali assetti verranno definiti, e quindi le autorizzazioni alla prededuzione dovranno essere somministrate con prudenza. Si ripresenta, né più né meno, la stessa situazione già sperimentata nelle inibitorie alle azioni esecutive e cautelari ex art. 182-bis, comma 6, l. fall. a tutela di preaccordi di ristrutturazione; inibitorie che, proprio a causa delle stesse incertezze, sono di raro utilizzo.
Il considerando n. 68 della Direttiva fornisce un’utile indicazione: dovrebbero beneficiare di prededuzione i finanziamenti interinali che sono ragionevolmente e immediatamente necessari per (i) la continuazione dell’attività o (ii) la sopravvivenza dell’impresa o (iii) la salvaguardia del valore dell’azienda.
6 Segue: il cash flow test del tribunale
La Direttiva fornisce un’ulteriore indicazione interpretativa al’art. 17, comma 3, disponendo che gli Stati membri possono escludere la tutela dei finanziamenti interinali concessi dopo che il debitore sia divenuto incapace di pagare i propri debiti in scadenza, cioè se sia divenuto cash flow insolvent.
La normativa italiana non ha recepito tale verifica, ritenendo forse che possa sempre darsi il caso dell’imprenditore insolvente per il quale esistano concrete prospettive di risanamento.
Sarebbe comunque opportuno che il tribunale disponesse l’effettuazione del cash flow test, tanto più quando abbia concesso misure protettive verso un’amplia platea o tutti i creditori, poiché se l’imprenditore, che non è tenuto a pagare i crediti anteriori, non riesce neppure a pagare quelli correnti, si è al cospetto di un vero e proprio collasso della continuità.
Queste situazioni sono generalmente il riflesso di un margine operativo lordo (o EBITDA) negativo.
Si tratta generalmente di situazioni anaerobiche, in cui l’azienda consuma se stessa per sopravvivere; tuttavia in tali casi il decreto dirigenziale lascia ancora una chance alla continuità, prevedendo che l’esperto, se sentito dal tribunale in occasione della richiesta di autorizzazione alla prededuzione, verifichi se la liquidità bruciata dalla prosecuzione dell’attività anche tramite il finanziamento prededucibile sia controbilanciata dai vantaggi derivanti ai creditori nel corso della composizione negoziata dalla continuità aziendale (sez. III, n. 7.5).
Quanto sopra con riferimento ai finanziamenti interinali; quanto, invece, ai finanziamenti in esecuzione, ritengo che essi non possano essere autorizzati in pendenza di trattative, essendo la situazione ancora fluida, salvo adottare improbabili provvedimenti autorizzativi con tortuose condizioni sospensive per tenere conto di multipli scenari.
Viceversa, concluse le trattative, definito il piano e identificata una delle soluzioni di cui all’art. 11 commi 1 e 2 (contratto, convenzione di moratoria, piano di risanamento ex art. 67 l. fall. senza attestazione, accordo di ristrutturazione dei debiti), l’autorizzazione ai finanziamenti in esecuzione potrà essere rilasciata, verificati che siano i due requisiti già indicati di funzionalità dei finanziamenti alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori.
L’autorizzazione è di competenza del tribunale fallimentare in composizione monocratica; il giudice provvede sentite le parti interessate ed assunte le informazioni necessarie, se del caso avvalendosi dell’ausiliario ex art. 68 c.p.c. Nulla impedisce tuttavia che egli assuma informazioni dall’esperto, come previsto anche dal decreto dirigenziale.
Oltre alla prededuzione autorizzata, il decreto tutela i finanziamenti negli altri due modi indicati all’art. 17, comma 1 della Direttiva.
È infatti prevista l’esenzione da revocatoria, poiché l’art. 12, comma 2 dispone che non sono soggetti a revocatoria di cui all’art. 67, comma 2, l. fall. tutti gli atti, i pagamenti e le garanzie liberamente posti in essere dall’imprenditore nel periodo successivo alla accettazione dell’incarico da parte dell’esperto.
L’esenzione riguarda soltanto gli atti, i pagamenti e le garanzie “normali” di cui al secondo comma dell’art. 67 l. fall.; restano dunque revocabili gli atti titolo gratuito o sproporzionati, i pagamenti con mezzi anomali e la costituzione di garanzie per debiti preesistenti.
È però posta una condizione: atti, pagamenti e garanzie, oltre che “normali” devono essere coerenti con l’andamento delle trattative e con le prospettive di risanamento esistenti al momento in cui sono stati compiuti.
Posto che i terzi non hanno gli strumenti per verificare se tale coerenza sussista, questa formulazione rischia di dissuaderli dall’entrare in affari con imprese in crisi.
Si è eccepito trattarsi della stessa situazione già sperimentata in giurisprudenza riguardo alla revocatoria di atti compiuti in esecuzione di piani attestati di risanamento[21], ma ciò non è di grande consolazione, anche considerato che nella composizione negoziata sono previsti i due caveat di coerenza che ampliano gli spazi di revoca.
Per dare maggiore stabilità agli atti in caso di esito positivo delle trattative, il debitore potrà approdare ad un piano non attestato di risanamento (art. 11, comma 1, lett. c) oppure un accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 11, comma 2) proprio al fine di ridurre i rischi di revocatoria.
In ogni caso, considerato che l’intera procedura può durare fino a trecentosessanta giorni (cfr. art. 5, comma 7), i margini di esercizio dell’azione revocatoria sono strettissimi.
Infatti non è prevista la retrodatazione degli effetti della revocatoria alla data di pubblicazione della richiesta di misure protettive, nonostante da tale data e fino alla conclusione delle trattative o all’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata non possa essere pronunciata la dichiarazione di fallimento (art. 6, comma 4).
Nel caso specifico dei finanziamenti, poi, vi è da osservare che quando vi sia stato il vaglio giudiziale positivo di funzionalità ex art. 10, comma 1, anche quello di coerenza ex art. 12, comma 2 dovrebbe darsi per assodato, salvo frodi.
Inoltre, la “conservazione degli effetti degli atti autorizzati” di cui all’art. 12, comma 1 potrebbe interpretarsi nel senso che essi non sono revocabili una volta, appunto, autorizzati.
Pertanto, intervenuta l’autorizzazione alla prededuzione, non vi sono realisticamente spazi per la revoca né delle rate di finanziamenti (sebbene non rappresentino pagamenti di servizi in termini d’uso[22]) né delle rimesse di conto corrente su anticipazioni bancarie, quand’anche riducano in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria.
Per converso, qualora l’autorizzazione venga negata, non opera alcuna protezione dall’azione revocatoria, neppure per gli atti, pagamenti e garanzie “normali” (art. 12, comma 3).
In ogni caso precisa l’art. 12, comma 4 che l’autorizzazione giudiziale e l’esonero da revocatoria non sollevano l’imprenditore dalle responsabilità per gli atti compiuti.
Infine, sempre in coerenza con l’art. 17, comma 1 della Direttiva, la disciplina nazionale esclude il finanziatore da responsabilità civili e penali, sebbene in modo indiretto.
Quanto alla responsabilità civile per abusiva concessione di credito, pare non configurabile dalla più recente giurisprudenza quando il credito sia stato erogato nell’ambito di norme speciali, cioè tramite una “procedura formalizzata e sottoposta a controlli esterni” che abbia “lo scopo di evitare il fallimento e soddisfare meglio i creditori”[23].
Quanto alla responsabilità penale, l’art. 12, comma 5, D.L. 118/2021 disapplica i reati di bancarotta preferenziale e bancarotta semplice (tra i quali l’assai ricorrente art. 217 n. 4 sull’aggravamento del dissesto) in relazione ai pagamenti e alle operazioni autorizzate dal tribunale. L’esonero riguarda l’imprenditore e quindi, per estensione, anche i suoi finanziatori, che altrimenti potrebbero concorrere nel reato ex art. 110 c.p.
L’esonero dai reati copre un ambito temporale più ampio e favorevole rispetto alla disciplina del safe harbor delineata dall’art. 7.1 della Direttiva: per tutta la durata del procedimento di composizione, ed anche se non vengono chieste misure protettive, e non soltanto durante lo stay.
Sempre in tema di finanziamenti, va menzionato l’art. 4, comma 6, il quale prevede che l’accesso alla composizione negoziata della crisi non costituisce di per sé causa di revoca degli affidamenti bancari concessi all’imprenditore.
All’inciso “di per sé” occorre attribuire il significato che qualora concorrano altri elementi patologici del contratto (ad esempio esistenza di protesti, presentazione di fatture false o doppia presentazione), questo potrà essere risolto.
La disposizione sulla sopravvivenza degli affidamenti può essere interpretata in due modi.
Prima soluzione: l’imprenditore può continuare a utilizzare gli affidamenti per la parte accordata e non ancora utilizzata, e la banca è costretta a subirne l’utilizzo, senza neppure il beneficio della prededuzione. Se così sarà, occorrerà verificare nella pratica la tenuta di questa disposizione a fronte di stratagemmi dilatori e di “sospensioni” del rapporto bancario per ostacolare l’accesso al nuovo credito.
Seconda soluzione: la banca non può recedere dal contratto e pretendere l’immediato pagamento del fido utilizzato, ma l’imprenditore non può più utilizzare la parte degli affidamenti ancora disponibile, cioè fino a concorrenza del fido accordato.
L’art. 56 del decreto Cura Italia (D.L. 18/2020) aveva rimosso qualunque dubbio interpretativo disponendo, all’indomani del diffondersi del Covid, che gli affidamenti non potessero essere revocati per un certo tempo “sia per la parte utilizzata sia per quella non ancora utilizzata”.
Nel caso qui in esame, dove manca questa utile precisazione, vi sono ragioni a favore dell’una e dell’altra soluzione interpretativa.
A favore del congelamento del credito nei limiti del fido utilizzato occorre considerare che tra le conclusioni positive dell’accordo previste dall’art. 11, commi 1 e 2, rientrano sia gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa (art. 182-septies l. fall.) che le convenzioni di moratoria (art. 182-octies l. fall.), ed entrambe le discipline prevedono che alle banche non aderenti non può essere imposto il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti; precisazione che non sarebbe di grande utilità se il debitore fosse stato prima di allora, in pendenza delle trattative, libero di fare man bassa di nuova finanza.
A favore del diritto di usare l’intera linea di credito accordata si può osservare come la posizione della banca non sia dissimile da quella di qualunque controparte di contratti pendenti, che, come abbiamo visto, è costretta ad accumulare ulteriore credito.
Personalmente propendo per quest’ultima interpretazione: (i) sul piano letterale, proprio perché non vi è alcuna “limitazione” della portata della norma, che sarebbe stata doverosa se il legislatore avesse voluto impedire l’utilizzo del fido residuo; (ii) sul piano delle intenzioni del legislatore, perché l’azzeramento del credito bancario addizionale rischierebbe di aggravare, anziché sanare, le situazioni di crisi non particolarmente gravi, cui lo strumento della composizione negoziata è vocato.
Ritengo infatti che questo strumento mal si adatti alle crisi o insolvenze gravi.
Infatti l’innalzamento della soglia di coercibilità verso i creditori recalcitranti di una singola categoria dal 25% al 40% (art. 11, comma 2) non è sufficiente a rendere l’accordo di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa competitivo con le maggioranze del concordato preventivo.
Soprattutto, però, nel concordato preventivo non ci sono spazi di negoziazione, anche perché incombe il rischio penale del mercato del voto. Di fatto, con il deposito della domanda di concordato, il debitore brucia i vascelli alle proprie spalle, come fece Cortés che così riuscì a conquistare l’intero Messico con uno sparuto esercito di 508 uomini[24], e il creditore non può più impegnare il proponente in lunghe e infruttuose trattative con un atteggiamento di studiata apatia opportunistica: egli può solo accettare o rigettare la proposta, e se l’attestazione di miglior soddisfacimento della continuità è convincente, gli converrà la prima soluzione.
7 La cessione dell’azienda
Il caso regolamentato dall’art. 10 comma 1, lett. d), qui esaminato, riguarda la cessione di azienda in pendenza di procedimento di composizione negoziata, e va tenuto distinto dal diverso caso della cessione nell’ambito del concordato liquidatorio semplificato di cui all’art. 9 D.L. 118/21.
Dispone la norma che il tribunale, in pendenza di procedimento, può autorizzare l’imprenditore a trasferire in qualunque forma l’azienda o uno o più suoi rami senza gli effetti di cui all’art. 2560, comma 2 c.c. ma ferma restando l’applicazione dell’art. 2112 c.c. L’esenzione degli effetti dell’art. 2560 c.2 c.c. elimina un deterrente all’acquisto di aziende in crisi perché rimuove la responsabilità solidale del cessionario per i debiti risultanti dalle scritture contabili.
L’inciso “in qualunque forma” fa ritenere che tale cessione possa avvenire anche, ad esempio, attraverso il conferimento dell’azienda in una società di nuova costituzione e successiva cessione della partecipazione, il che consentirebbe una sensibile riduzione della tassazione IRES ex art. 176 TUIR sulla eventuale plusvalenza realizzata. Tale operazione (conferimento e successiva cessione) non può essere considerata elusiva, per espressa previsione dell’art. 176 c. 3 TUIR.
Va infatti notato che il legislatore non ha inserito tra le misure tributarie premiali dell’art. 14, D.L. 118/2021 la detassazione delle plusvalenze realizzate nel concordato preventivo di cui all’art. 86, comma 5, TUIR; norma la cui applicabilità alle cessioni effettuate nei concordati in continuità è comunque controversa[25].
Il DL non interviene invece sullo speciale regime delineato dall’art. 14 D.Lgs. 472/1997, il quale prevede la responsabilità della cessionaria di azienda per i debiti tributari della cedente; si tratta in questo caso di responsabilità sussidiaria, cioè che richiede la preventiva escussione del cedente, e non invece di quella solidale.
Tale responsabilità non opera per le cessioni effettuate nell’ambito delle procedure concorsuali elencate nell’art. 14, comma 5, D.Lgs. 472/1997, tra le quali non è richiamata la composizione negoziata, che peraltro non è una procedura concorsuale ma, semmai, un procedimento. Pertanto, la responsabilità sussidiaria per debiti tributari si applica anche alle cessioni di azienda autorizzate nella composizione assistita: essa opera nei limiti del debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria.
Il cessionario potrà limitarne la portata chiedendo il rilascio di un certificato sull’esistenza di contestazioni in corso o già definite. Qualora il certificato sia negativo o non sia rilasciato entro 40 giorni, il cessionario sarà liberato da ogni responsabilità, altrimenti ne risponderà nei limiti di quanto risultante dal certificato.
Va notato che l’art. 10 del Decreto “disattiva” l’art. 2560, comma 2, c.c. invece di adottare la formula dell’art. 105, comma 4, l. fall., valida per le cessioni di aziende relative ad imprese fallite o in concordato. Poiché entrambe le norme fanno riferimento ai “debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta”, mi pare che le stesse conducano al medesimo risultato di escludere il passaggio di debiti insieme all’azienda.
Resta problematica la sorte dei debiti determinati da contratti pendenti, cioè non totalmente eseguiti da entrambe le parti. Secondo la Cassazione tali contratti determinano posizioni contrattuali (cioè: debiti) che seguono la sorte del contratto e, quindi, transitano con esso[26], indipendentemente dall’annotazione nelle scritture contabili.
Si tratta dunque di debiti che vengono trasferiti non ex art. 2560 c.c., bensì ai sensi dell’art. 2558 c.c.; norma che il tribunale non ha il potere di derogare.
Vero è che cedente e cessionario potrebbero escludere il passaggio di alcuni contratti, come consentito proprio dall’art. 2558 c.c. (“Se non è pattuito diversamente…”), ma ciò non sempre è opportuno o possibile.
Infatti il cedente che accetti di non trasferire unitamente all’azienda alcuni contratti non potrà successivamente sciogliersi da essi, perché non esiste nella composizione negoziata una norma che lo consenta come l’art. 169-bis l. fall. nel concordato, e quindi avrà l’interesse opposto a trasferirli.
Inoltre esistono contratti indispensabili alla prosecuzione dell’attività. Si pensi al caso della cessione di un’azienda manifatturiera “energivora” in ritardo con i pagamenti delle somministrazioni di utenze, dove, a causa di regole dettate dall’ARERA, lo switch ad un nuovo fornitore di gas ed elettricità richiede fino a 50 giorni di tempo dal passaggio di proprietà dell’azienda; oppure alla cessione di un’azienda composta da una rete di negozi i cui locali non siano di proprietà del cedente, bensì siano condotti in locazione e questi sia moroso al pagamento dei canoni.
In entrambi i casi l’acquirente non può ragionevolmente escludere dalla cessione di azienda il passaggio di tali contratti, pena un lunghissimo fermo degli impianti nel primo caso e l’impossibilità di far funzionare la rete di negozi nel secondo; tuttavia, nell’accettarne il trasferimento, si espone al rischio di trovarsi debitore anche per le prestazioni inadempiute dal cedente.
Per rendere l’azienda appetibile il cedente deve saldare i debiti suscettibili di trascinamento, ma non è detto che disponga delle somme necessaria.
Sarebbe dunque opportuno stabilire per via normativa che l’art. 2558 c.c. si applichi ai soli rapporti futuri e invece l’art. 2560 c.c. ai soli rapporti passati; ciò per evitare il rischio di trascinamento al cessionario di posizioni contrattuali (cioè: debiti) verso il contraente ceduto per prestazioni effettuate da quest’ultimo al cedente[27].
Non mi pare che la possibilità di rideterminare per via giudiziale il contenuto del contratto col contraente ceduto, prevista dall’art. 10 c. 2, possa sortire effetti utili, trattandosi di un provvedimento di durata temporanea (cfr. art. 10 c. 2), al termine del quale il debito tornerebbe ad essere esigibile.
Vi è semmai da chiedersi se possa legittimare un provvedimento giudiziale di disapplicazione della responsabilità del cessionario per dette posizioni contrattuali pregresse la precisazione, aggiunta in sede di conversione del decreto-legge, secondo la quale il tribunale, nell’autorizzare il trasferimento di azienda senza gli effetti dell’art. 2560 c.c., detta “le misure ritenute opportune, tenuto conto delle istanze delle parti interessate al fine di tutelare gli interessi coinvolti”.
Quanto all’art. 47, L. 428/1990 che disciplina le consultazioni sindacali in caso di trasferimento di azienda, e che verrà rimodellato con l’entrata in vigore dell’art. 368 CCI, ritengo che si applichi anche alla cessione effettuata nell’ambito della composizione negoziata, nonostante lo speciale regime delle consultazioni sindacali previste dall’art. 4 del Decreto quando, nel corso della composizione negoziata, siano assunte rilevanti determinazioni che incidano sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori.
Infatti le due consultazioni hanno finalità, tempistiche ed anche soggetti coinvolti diversi, considerato che nelle trattative ex art. 47 deve intervenire anche il cessionario. Ovviamente nulla impedirà una trattazione unitaria dei due procedimenti.
Nessuna deroga all’art. 2112 c.c. sarà consentita all’esito di tali consultazioni, se non in forza di accordi individuali assunti in sede protetta, dato che l’art. 47 L. 428/1990 consente alcune deroghe soltanto nell’ambito delle procedure concorsuali.
Da ultimo, essendo l’applicazione degli artt. da 2919 a 2929 c.c. in tema di vendita forzata richiamata solo in caso di cessione di azienda nella liquidazione semplificata (art. 19) ma non anche in pendenza di composizione negoziata (art. 10), ed essendo altresì evidente che quest’ultima non è una vendita forzata, se ne deduce che l’acquirente di un’azienda ceduta durante la composizione negoziata potrà invocare l’art. 2922 c.c. e quindi la garanzia per i vizi della cosa ex art. 1490 c.c. nonché, come da diffusa giurisprudenza[28], la garanzia per la mancanza delle qualità promesse ex art. 1497 c.c.
Valgono qui le stesse considerazioni svolte precedentemente sull’esonero dall’azione revocatoria di cui godono gli atti compiuti dopo la nomina dell’esperto, e della particolare tenuta di quelli oggetto di vaglio giudiziale, così come il fatto che, qualora l’autorizzazione venga negata, non opera alcuna protezione dall’azione revocatoria, e che l’autorizzazione giudiziale e l’esonero da revocatoria non sollevano l’imprenditore dalle responsabilità per gli atti compiuti (art. 12, commi 3 e 4).
L’articolato non prescrive alcun ricorso a procedimenti competitivi, ma essi sono giustamente raccomandati nel provvedimento dirigenziale, anche attraverso appositi strumenti di cui sarà dotata la piattaforma telematica (ad esempio, data room virtuale e raccolta delle offerte su sezione secretata).
In ogni caso il tribunale potrà negare l’autorizzazione, rendendo l’azienda difficile da collocare, quando la vendita difetti di competitività, non sia garantito il pagamento del prezzo o in altre situazioni che mettano a repentaglio l’interesse dei creditori.
Alle vendite effettuate nell’ambito della composizione negoziata non si applica l’art. 108, comma 2, l. fall., cioè non è previsto che il giudice cancelli le eventuali iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli.
Pertanto, qualora l’azienda comprenda un immobile ipotecato e questo non venga liberato prima del trasferimento, la garanzia si manterrà in vita e il cessionario decurterà corrispondentemente il prezzo corrisposto per l’acquisto dell’azienda. Viceversa, in caso di pignoramento il bene non potrà essere trasferito fino al pagamento delle somme dovute.
Non si pone quindi il rischio, proprio delle vendite competitive effettuate prima dell’omologazione del concordato preventivo, di disperdere il ricavato della vendita, destinato al creditore privilegiato ma che potrà essergli pagato solo dopo l’omologazione, in conseguenza di azioni esecutive per debiti sorti dopo l’accesso al concordato o della caducazione anticipata della procedura.
[1] Il D.L. 118/2021, pur essendo ispirato alla Direttiva, non ne costituisce il recepimento; infatti essa non viene menzionata né nel preambolo del decreto-legge né nel decreto dirigenziale del 28 settembre 2021, ma soltanto nella relazione illustrativa.
[2] Brogi, I rapporti pendenti nella liquidazione giudiziale, in Il Fall., 2019, p. 1194; Patti, Rapporti pendenti nel concordato preventivo riformato tra prosecuzione e scioglimento, in Il Fall., 2013, p. 266.
[3] L’art. 5, comma 1 nel disciplinare le misure protettive fa generico riferimento al “creditore”, senza limitarne il divieto di azioni esecutive e cautelari ai suoi crediti “per titolo o causa anteriori”, come invece disposto dall’art. 168 l. fall.
[4] Paulus-Damman, European preventive restructuring, Monaco, 2021, p 135
[5] Forced uncompensated taking of property: ecco uno dei rari casi in cui la lingua italiana è più sintetica della lingua inglese.
[6] Il diritto di credito è equiparato al diritto di proprietà dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; pertanto soggiace all’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni», e non può essere oggetto di espropriazione privata.
[7] Segnalo incidentalmente che la versione italiana della Direttiva soffre di una vistosa incongruenza terminologica, non riscontrabile nella versione inglese ove si fa costantemente riferimento agli executory contracts, poiché la locuzione “contratto ineseguito” viene indicata una sola volta nell’articolo 1 tra le definizioni e poi non viene mai evocata nel resto della Direttiva, essendo impiegata la locuzione “contratto pendente”.
[8] Ad esempio, il sito internet del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti riporta un lungo elenco di leading cases in cui i giudici sono stati chiamati a dirimere casi dubbi: si veda www.justice.gov/jm/civil-resource-manual-59-executory-contracts-bankruptcy.
[9] PAULUS-DAMMAN, op. cit., p. 132.
[10] Da segnalare che la Direttiva incorre in un errore sia nell’art. 7.5 che nella parte finale del considerando 40 quando identifica la controparte contrattuale come creditore. Che la controparte di un contratto pendente di importanza critica per la continuità sia anche creditore o meno è circostanza casuale; Paulus-Damman, op. cit., p. 133.
[11] Sebbene inserita nel comma 3 dell’art. 182-quinquies, l. fall. sui finanziamenti urgenti, non vi è motivo di dubitare che la disposizione si applichi anche ai finanziamenti attestati del primo comma.
[12] Riches to rags: a brief history of bankruptcy in pop, The Guardian, 15 luglio 2015.
[13] Da ultima Cass., sez. III, 14 giugno 2021, n. 16743.
[14] La relazione è a firma del Magistrato relatore Leuzzi, che approfondisce l’argomento in Sopravvenienze perturbative e rinegoziazione dei contratti d’impresa, www.ildirittodellacrisi.it, 2021.
[15] “Indispensabile”, non “opportuno” come invece erroneamente si esprime il decreto dirigenziale emanato il 28 settembre 2021, punto 11.
[16] In questo, la nuova disposizione, accusata di essere liberale, è tutt’altro che tale; mi riferisco alle accese critiche mosse al D.L. 118/2021 da Liccardo, Neoliberismo concorsuale e le svalutazioni competitive: il mercato delle regole, www.giustiziainsieme.it, 2021.
[17] E non basta che venga riconosciuto un indennizzo diluito nel tempo per non ostacolare il ripristino dell’equilibrio finanziario dell’impresa in crisi – come suggerito da Panzani, Il D.L. “Pagni” ovvero la lezione (positiva) del covid, www.dirittodellacrisi.it, 2021 – quando anche la controparte sia in crisi di liquidità.
[18] Per un’efficace sintesi, Milton e Rose Friedman, Free to choose, Harcourt, 1979.
[19] Considerando in via interpretativa che gli effetti della pandemia rientrano tra gli “avvenimenti straordinari e imprevedibili” di cui all’art. 1467 c.c..
[20] Pare che ciò sia una conseguenza dell’acceso confronto tra gli stati membri in relazione all’adozione della absolute oppure relative priority rule.
[21] Dove può intervenire la revocatoria a seguito di una valutazione ex ante, parametrata sulla condizione professionale del terzo contraente, di evidente inettitudine del piano presentato dal debitore a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa; Cass., sez. I, 10 febbraio 2020, n. 3018.
[22] Trib. Bergamo, 10 luglio 2017.
[23] Cass., sez. I, 30 giugno 2021, n. 18610 e la ancor più recente Cass., sez. I, 14 settembre 2021, n. 24725.
[24] L’effetto fu duplice: quello di motivare i suoi uomini, che a quel punto avevano l’unica possibilità di combattere fino alla morte, essendo preclusa ogni via di fuga, e di rendere credibile la minaccia nei confronti degli indigeni, che infatti fuggirono a gambe levate.
[25] Agenzia delle Entrate, risposta all’interpello n. 462 del 31 ottobre 2019.
[26] Tra le numerose, Cass., sez. I, 9 ottobre 2017, n. 23581; pressoché tutte si rifanno alla sentenza capostipite Cass., sez. I, 16 giugno 2004, n. 11318.
[27] La stessa tematica si presenta nelle cessioni di azienda in concordato preventivo, non potendosi applicare l’art. 74 l. fall. (Cass., sez. I, 18 maggio 2005, n. 10429).
[28] Cass., sez. VI, 12 luglio 2016, n. 14165.