di Pier Giorgio Cecchini
Pubblicato in ilfallimentarista.it in marzo 2014
Sommario:
2. Le tre ipotesi di confronto del “miglior soddisfacimento”.
3. Forme e misura del soddisfacimento delle diverse classi.
3.1. Irrilevanza delle entità non valutabili economicamente.
3.2. Irrilevanza delle percentuali offerte a singole classi
3.3. La massimizzazione dell’attivo
4. Diversità di valutazioni fra prosecuzione dell’attività e liquidazione.
5. Diversità di valutazioni fra liquidazione concordataria e fallimentare.
A meno di un anno dall’entrata in vigore dell’art. 163-bis ad opera della l. 132/15 constano già alcuni provvedimenti di tribunali, nonché diversi interventi dottrinali che soccorrono nel delineare più chiaramente l’ambito di operatività e modalità di applicazione della nuova norma.
Con l’introduzione nella legge fallimentare dell’art. 186-bis ad opera del D.L. 83/2012 il legislatore ha regolamentato la fattispecie del concordato in continuità, addossando all’attestatore il compito di dimostrare che la prosecuzione dell’attività sia funzionale al “miglior soddisfacimento dei creditori”. La stessa attestazione è richiesta anche nelle ipotesi di acquisizione di finanziamenti interinali (art. 182-quinquies, primo comma) e di pagamento di crediti anteriori (art. 182-quinquies, quarto comma).
Le locuzioni utilizzate nelle tre fattispecie non sono identiche, poiché l’art. 182-quinquies evoca la “migliore soddisfazione” mentre l’art.186-bis contempla il “miglior soddisfacimento”, ma non pare debba attribuirsi diverso significato alle due formule lessicali1.
La dimostrazione, da parte dell’attestatore, del “miglior soddisfacimento” ha lo scopo di proteggere i creditori anteriori alla pubblicazione del ricorso tanto dalla riduzione di valore economico dei beni aziendali derivante dal vincolo pluriennale alla prosecuzione dell’attività, quanto dalla maturazione di passività destinate ad essere soddisfatte integralmente (nel concordato) o ad essere considerate prededucibili (nell’eventuale successivo fallimento). I creditori anteriori saranno dunque adeguatamente tutelati qualora, almeno sulle basi prospettiche oggetto del vaglio dell’attestatore, sia ragionevole prevedere la generazione di risorse finanziarie addizionali tali da incrementare le risorse a disposizione dei creditori medesimi, nonostante le riduzioni di valore e le prededuzioni nel frattempo maturate.
Finalità analoghe vengono perseguite nell’attestazione di “miglior soddisfacimento” finalizzata alla stipulazione di finanziamenti prededucibili e di pagamento di crediti anteriori. In particolare si vogliono tutelare i creditori anteriori dal maturare di prededuzioni nel primo caso e da pagamenti potenzialmente lesivi della par condicio nel secondo.
Nel prosieguo ci si occuperà principalmente della disamina dell’attestazione di miglior soddisfacimento nei concordati con continuità aziendale, che rappresenta soltanto uno dei tre casi sopra esaminati. Preme tuttavia sottolineare come, una volta dimostrata la convenienza, per i creditori, dell’ipotesi di continuazione dell’attività, risulti spianata la strada anche per la dimostrazione del “miglior soddisfacimento” nei casi di stipulazione di finanziamenti interinali2 e del pagamento di crediti anteriori.
2. Le tre ipotesi di confronto del “miglior soddisfacimento”’
Occorre preliminarmente identificare in relazione a quali alternative, rispetto alla prosecuzione dell’attività, debba essere valutato il miglior soddisfacimento dei creditori. Le uniche due alternative possibili appaiono essere la liquidazione atomistica in sede concordataria ovvero in sede fallimentare.
Che debba trattarsi di liquidazione atomistica (intesa quale cessione separata dei singoli beni originariamente compresi nell’azienda, oltre che dei beni ad essa non funzionali) lo si desume implicitamente dal tenore letterale dell’art. 186-bis, primo comma, secondo cui si ha concordato in continuità “quando il piano di concordato di cui all’articolo 161, secondo comma, lettera e) prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione”. La norma elenca tutte le possibili ipotesi di continuità, sia essa diretta che indiretta (quest’ultima rappresentata dalle ipotesi di cessione e conferimento dell’azienda), escludendo qualunque altra ipotesi di conservazione dell’azienda stessa, sicché l’alternativa da valutare ai fini del miglior soddisfacimento non può che essere rappresentata dalla liquidazione atomistica dei beni che la compongono.
Resta per la verità da considerare l’ambiguo caso dell’affitto d’azienda; sul punto si contendono il campo le diverse opinioni di chi da un lato ritiene che il concordato possa definirsi ‘‘con continuita` aziendale’’ anche quando l’affitto sia anteriore al deposito della domanda e di chi, dall’altro, reputa che esso non possa definirsi tale nemmeno quando l’affitto abbia luogo dopo il deposito della domanda3.
Ebbene, qualora si acceda alla tesi per cui l’affitto d’azienda realizzi la continuità, parrebbero porsi seri problemi operativi in capo all’attestatore, il quale dovrebbe rendere l’attestazione di miglior soddisfacimento pronosticando l’andamento economico non già della società in concordato, bensì di una società terza, della quale egli nulla conosce, mentre per converso egli non dovrebbe rendere alcuna attestazione qualora si acceda all’interpretazione opposta.
Nella prima ipotesi spetterebbe all’attestatore, quale accertamento di fattibilità, indicare se l’andamento dell’affittuaria incida sul soddisfacimento dei creditori quanto alla capacità di onorare sia i canoni di affitto sia l’eventuale offerta vincolante d’acquisto. Sarebbe dunque imprescindibile la collaborazione dell’affittuaria nella messa a disposizione di dati aziendali, quali business plans e situazioni contabili, pena l’impossibilità per l’attestatore di svolgere il proprio incarico.
Sgombrato il campo dal caso dell’affitto di azienda, occorre verificare quale scenario di tipo liquidatorio debba essere analizzato, in alternativa alla continuità, per identificare quello che realizzi il maggior soddisfacimento dei creditori.
Ebbene, l’impresa che intenda avanzare una domanda di concordato in continuità deve necessariamente trovarsi in stato di crisi o insolvenza (cfr. art. 160, commi primo e terzo) e la crisi è suscettibile di trasformarsi in insolvenza in tempi assai rapidi. Per tale impresa, pertanto, le uniche alternative (dissolutorie) realistiche al concordato in continuità sono rappresentate dal concordato meramente liquidatorio (senza continuità) ovvero dal fallimento.
Si tratta poi di stabilire se l’attestatore debba limitare l’analisi differenziale del miglior soddisfacimento ad una soltanto delle due alternative liquidatorie, quella concordataria ovvero fallimentare, tenendo conto del fatto che la nomina del liquidatore giudiziale e la debenza di risarcimenti danni da scioglimento dei contratti nel concordato liquidatorio, da un lato, e le inefficienze dei mercati d’asta e l’esperibilità di azioni revocatorie nel fallimento, dall’altro, rappresentano aspetti passibili di determinare diversi gradi di soddisfacimento nei due diversi ambiti4.
E’ per converso estremamente improbabile che vi siano spazi per una liquidazione in bonis, nel momento in cui un attestatore si accinga a validare un piano già predisposto da altri professionisti a fronte di una conclamata crisi o insolvenza che si trascina da mesi se non da anni. Né pare che una terza alternativa possa essere costituita dall’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza (D.Lgs. n. 270/99), attese le diverse finalità dei due istituti5.
Ogni diversa alternativa rispetto a quella del concordato meramente liquidatorio o del fallimento non è ragionevolmente percorribile, in quanto potrebbe comportare la maturazione di ulteriori passività (si pensi, ad esempio, agli interessi passivi o alle sanzioni nei confronti degli enti impositori) con il conseguente rischio di imputazione del reato di bancarotta semplice ex art. 217, n. 4 in capo agli organi sociali dell’impresa per aver aggravato il dissesto astenendosi dal chiedere il fallimento della società.
Concludendo, l’attestatore farebbe bene a valutare tre alternative: a) la prosecuzione di attività, diretta o indiretta, in ambito concordatario, b) la liquidazione atomistica in ambito concordatario e c) la liquidazione atomistica in ambito fallimentare6. Tale impostazione avrà conseguenze pratiche assai rilevanti ai fini dell’attestazione, come si tenterà di evidenziare nei prossimi capitoli.
3. Forme e misura del soddisfacimento delle diverse classi
Recita l’art. 160, primo comma, che il piano può prevedere la soddisfazione dei crediti “in qualsiasi forma” nonché “la suddivisione dei creditori in classi”. Queste locuzioni di così ampia portata rendono il compito dell’attestatore particolarmente gravoso: come dovrà questi orientare le proprie valutazioni per individuare il migliore soddisfacimento dei creditori? In realtà, a parere di chi scrive, l’attestatore non è investito del compito né di valutare le utilità attribuite ai creditori che non siano suscettibili di valutazione economica, né di valutare se il trattamento assicurato a questa o quella classe nel concordato in continuità sia migliore rispetto a quello che la medesima classe otterrebbe nelle alternative soluzioni liquidatorie. Il suo compito è quello di valutare semplicemente se la prosecuzione dell’attività consenta o meno di realizzare un maggiore attivo patrimoniale da distribuire ai creditori. Ma andiamo per gradi.
3.1 Irrilevanza delle entità non valutabili economicamente
Innanzitutto, occorre sgombrare il campo da alcune ambiguità.
Il miglior soddisfacimento dei creditori prescinde sia dalla conservazione delle componenti produttive dell’impresa, sia dal mantenimento dei livelli occupazionali. Tali salvaguardie sono poste come obiettivo esplicito nelle cessioni di azienda nell’ambito dell’amministrazione straordinaria (artt. 1, 55, comma 1 e 63, terzo comma, D.Lgs. n. 270/99), essendo più rilevante l’impatto sociale della crisi di grandi imprese. Per converso, in un unico caso la legge fallimentare pone la salvaguardia dei livelli occupazionali (ma non anche la conservazione delle componenti produttive) quale obiettivo principale, ossia in caso di affitto d’azienda, e non in caso di cessione di azienda, ed unicamente nell’ambito del fallimento (art. 104-bis) e non anche del concordato. Scopo della legge fallimentare è, in ultimo, assicurare il massimo beneficio ai creditori. Ciò non esclude che la continuità assicuri il mantenimento, almeno in parte, dei rapporti di lavoro subordinato, ma non potrà essere questo il motivo che la giustifica.
Né pare che il miglior soddisfacimento possa essere costituito dal vantaggio che ritraggano i fornitori dalla prosecuzione dell’attività della loro cliente e, quindi, dalla possibilità di lucrare margini di guadagno sulle forniture future, tenuto oltretutto conto che, da un lato, tale vantaggio non riguarderebbe la totalità dei creditori ed il più delle volte neppure la totalità dei fornitori, ma soltanto taluni di essi, e che, dall’altro, comunque presupporrebbe la valutazione, da parte dell’attestatore, dell’effetto di tale prosecuzione sui risultati economici dei singoli creditori; il che pare francamente irrealizzabile7.
Il professionista, per rendere una dichiarazione di scienza, qual è l’attestazione di maggior soddisfacimento, può in realtà basarsi soltanto su fattori economicamente misurabili da mettere a confronto in un’analisi di tipo comparativo, esulando dal suo ambito di intervento le valutazioni meramente soggettive.
In altri termini, nel richiedere ad un organo di garanzia, qual è l’attestatore, la dimostrazione che la prosecuzione dell’attività sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori, il legislatore non può avere inteso attribuirgli la facoltà di basarsi su parametri arbitrari, in quanto attinenti alla sfera psichica dei creditori, e privi di un substrato misurabile in termini economici; parametri questi, oltretutto, non sindacabili da parte dell’autorità giudiziaria.
Una tale interpretazione dell’art. 186-bis, comma secondo, lettera c), renderebbe l’attività di attestazione impossibile da svolgere, così violando il principio di salvaguardia del risultato interpretativo utile delle norme di legge; principio, questo, per il quale una norma deve essere interpretata nel senso che abbia un significato, anziché quello in cui non ne abbia alcuno8
Da qui si deduce che, nella sua analisi comparativa volta ad accertare quale dei tre scenari realizzi il miglior soddisfacimento dei creditori, l’attestatore può sottoporre a stima unicamente le entità materiali o immateriali che, quantunque non aventi natura pecuniaria, siano suscettibili di valutazione economica, ossia risultino traducibili in una somma di denaro che ne rappresenti il valore economico.
E non è un caso che il medesimo criterio valga per individuare i beni o diritti conferibili nell’ambito della società a responsabilità limitata; dispone infatti l’art. 2464 c.c. che nella S.r.l. possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica.
A titolo esemplificativo, costituiscono entità suscettibili di valutazione economica i beni in natura, ivi compresi quelli altrui e futuri, i crediti, le prestazioni d’opera e servizi, i contratti non ancora eseguiti in tutto o in parte, le entità patrimoniali rappresentate da un fare o da un dare non immediato, il nome commerciale, il know-how, il diritto commerciale d’autore, etc.
3.2 Irrilevanza delle percentuali offerte a singole classi
Né può ritenersi che “miglior soddisfacimento” possa significare, in caso di concordato in continuità con più classi di creditori, che alla classe avente il trattamento deteriore debba comunque essere assicurata una percentuale di soddisfacimento maggiore di quella che i creditori otterrebbero in caso di liquidazione atomistica concordataria o fallimentare9.
Può infatti ben verificarsi che una classe, alla quale si prospetti un grado di soddisfacimento del 10% contro il 20% in ipotesi fallimentare, abbia interesse a che la società non fallisca e prosegua la sua attività; è il caso, ad esempio, di una classe composta da fornitori destinati a continuare ad operare con l’impresa oppure di creditori che abbiano interesse alla prosecuzione di un contratto oppure ancora di creditori che temano un’azione revocatoria.
Ma, a ben vedere, il concordato è meritevole di tutela anche quando non consti il consenso della classe a trattamento deteriore, e ciò nonostante sia possibile raggiungere le maggioranze richieste; il legislatore ha infatti scelto di subordinare le soluzioni negoziate della crisi alla volontà della maggioranza dei creditori e delle classi, ed i primi hanno facoltà di opporvisi unicamente con il rimedio previsto dall’art. 180. Sarebbe dunque in contraddizione con l’art. 177, primo comma, soffocare sul nascere una proposta concordataria in continuità, per difetto dell’attestazione di maggior soddisfacimento, solo perché essa (proposta) riservi ad uno sparuto gruppo di creditori, riuniti in una classe, un grado di soddisfacimento inferiore a quello ottenibile con la liquidazione atomistica. Arbitri ultimi della proposta concordataria sono gli stessi creditori, che, con il meccanismo del voto maggioritario per entità e numero di classi, hanno la possibilità, anche mediante silenzio-assenso, di decretarne il successo o il fallimento.
E che all’attestatore non competa alcun giudizio sui diversi gradi di soddisfacimento delle classi è confermato dal dato testuale dell’art. 161, terzo comma, in forza del quale il professionista deve attestare, oltre alla veridicità dei dati aziendali, anche la fattibilità del piano, mentre nessun giudizio gli si richiede in ordine alla proposta. Se si conviene che il piano costituisce il programma eseguendo il quale l’imprenditore in crisi si propone di onorare gli impegni scaturenti dall’omologazione, mentre la proposta rappresenta l’offerta di soddisfacimento prospettata ai creditori, ne esce rafforzato il convincimento che l’attività dell’attestatore debba limitarsi alla indicazione di quale scenario comporti la massimizzazione dell’attivo e in quali tempi, senza curarsi di come quest’ultimo sia ripartito tra i creditori10.
Beninteso, esistono aspetti della proposta che si riflettono sul piano, aspetti dei quali l’attestatore dovrà senz’altro tener conto. Ad esempio la proposta non potrà indicare tempi di pagamento dei creditori non compatibili con i tempi di generazione delle risorse finanziarie previste dal piano. Ancora, ai fini dello stanziamento del fondo rischi derivante da risarcimento danni per scioglimento di contratti ai sensi dell’art. 169, secondo comma (qualora detto stanziamento venga trattato come tale anziché come passività vera e propria), occorrerà considerare nel piano quale percentuale la proposta intenda attribuire alle controparti contrattuali. Pertanto l’attestatore dovrà svolgere un controllo di coerenza1 della proposta rispetto al piano, ma non formulare un giudizio sulla proposta medesima, che compete, lo si ripete, ai soli creditori.
3.3 La massimizzazione dell’attivo
Si è in precedenza osservato che il miglior soddisfacimento è rappresentato dalle entità suscettibili di valutazione economica attribuibili ai creditori, e non da altri parametri per così dire evanescenti, e che esso non può identificarsi con l’interesse di questa o quella classe di creditori, bensì con quello della globalità dei creditori dell’impresa.
Esiste, dunque, un unico parametro in grado di esprimere il soddisfacimento dei creditori: il valore dell’attivo, inteso come insieme dei beni e dei diritti dell’impresa (nonché del valore attuale dei flussi finanziari attesi per il caso della continuità). Tale valore deve essere stimato dall’attestatore – a mio avviso – nelle tre diverse ipotesi di concordato in continuità, concordato liquidatorio e fallimento. Soltanto qualora la continuità assicuri verosimilmente il maggior valore dell’attivo, la via del concordato in continuità sarà ragionevolmente percorribile.
In altri termini – e mi si perdoni il paragone gastronomico – nell’ipotesi di formazione di classi si avrà maggior soddisfacimento dei creditori quanto più grande sarà l’intera torta da distribuire, indipendentemente da come saranno suddivise le singole fette fra gli stessi.
Beninteso, l’attivo deve essere assunto, nelle tre ipotesi prospettate, al netto delle poste rettificative, le quali rappresentano il rischio di svalutazione degli assets e dei fondi rischi, i quali rappresentano debiti esigibili soltanto potenziali, ma che potrebbero diventare effettivi in determinate eventualità probabili o anche solo possibili.
Inoltre, poiché a mente dall’art. 186-bis, primo comma, nel caso di concordato in continuità “il piano può (ma non necessariamente deve) prevedere la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa”, il valore di realizzo di tali beni non concorrerà alla formazione dell’attivo salvo che il piano ne preveda la dismissione, mentre dovrà essere in ogni caso considerato nel concordato liquidatorio12 ed a maggior ragione nel fallimento.
4. Diversità di valutazioni fra prosecuzione dell’attività e liquidazione
Tralasciando gli aspetti generali connessi alla redazione dell’attestazione nel concordato in continuità e focalizzandoci sulla sola attestazione del miglior soddisfacimento in ottica comparativa tra ipotesi di continuità e di liquidazione, occorre segnalare, senza pretesa di completezza, alcuni elementi che dovranno essere presi in considerazione dall’attestatore nel valutare quale dei due scenari comporti la maggiore massa attiva a disposizione dei creditori.
In primo luogo nel solo concordato in continuità si manifesteranno flussi di cassa derivanti dalla prosecuzione dell’attività, comprensivi di quelli derivanti dalla eventuale successiva cessione dell’azienda o dal suo conferimento e successiva cessione della partecipazione13, nonché quelli derivanti dalla dismissione dei beni non funzionali alla prosecuzione dell’attività (ma soltanto qualora il piano ne preveda la dismissione; cfr. paragrafo precedente, ultimo capoverso); per converso, nella liquidazione si otterrà il realizzo di tutti i beni aziendali, sia di quelli che formano l’azienda che di quelli non ad essa funzionali.
In secondo luogo, la continuità è suscettibile di preservare il valore di immobilizzazioni materiali ed immateriali che, invece, in ipotesi di liquidazione, potrebbe subire drastiche riduzioni o addirittura azzerarsi; si pensi ad esempio, quanto alle prime, al valore di una flotta di automezzi di impresa di trasporti che resti inoperante per diversi mesi e, quanto alle seconde, ad un marchio di abbigliamento oppure ai rapporti con la clientela oppure ancora al know-how aziendale14.
In terzo luogo nel concordato in continuità è verosimile che le attività di esazione dei crediti e liquidazione del magazzino conducano a risultati più soddisfacenti rispetto all’ipotesi di interruzione dell’attività per svariate ragioni: mantenimento in vita di un apparato amministrativo a ciò deputato, esistenza di una rete di agenti in grado di gestire gli incassi o anche semplicemente maggiore determinazione e motivazione dell’imprenditore, rispetto al curatore, nell’attività di recupero crediti.
In quarto luogo, l’interruzione dell’attività può essere causa di risarcimento di danni. Emblematico il caso delle commesse e degli appalti in generale, ove vengono in rilievo:
- la perdita delle ritenute operate a garanzia della corretta esecuzione degli appalti di opere in corso di completamento e/o a garanzia del pagamento degli oneri contributivi (quest’ultima nella misura dello 0.50% ex 4 d.P.R. 207/2010);
- l’escussione delle fideiussioni bancarie rilasciate a garanzia del mancato o inesatto adempimento dell’appalto15 e/o fornite a garanzia della bontà delle opere per la durata di ventiquattro mesi dal collaudo o dal certificato di regolare esecuzione, al fine di ottenere il pagamento del saldo del contratto16, con conseguente azione di surroga o di regresso degli istituti di credito nei confronti della società in concordato;
- l’attivazione delle clausole penali contenute nei contratti per ritardata o mancata consegna nonché alla richiesta degli ulteriori risarcimenti danni.
In quinto luogo, nella stima delle passività di un concordato in continuità è ragionevole considerare come esigibili i debiti verso il personale dipendente (per trattamento di fine rapporto e ferie e permessi non goduti) limitatamente a coloro di cui si preveda la messa in mobilità nonché ad un’aliquota di quelli superstiti, in quest’ultimo caso per tenere conto del fisiologico turn-over. Per converso, non si dovranno ritenere esigibili i debiti della medesima natura nei confronti di tutta la forza lavoro, come sarebbe invece nell’ipotesi della cessazione totale dell’attività per liquidazione17.
Infine, nelle valutazioni dell’attestatore dovranno necessariamente rientrare elementi che sfuggono ad una analisi differenziale, ma che costituiscono comunque pre-condizioni per realizzare il migliore soddisfacimento, attenendo alla fattibilità vera e propria della continuità; si pensi ad esempio alla necessità di:
- valutare il fabbisogno finanziario per la prosecuzione dell’attività e rendere un’attestazione condizionata in ordine alla reperibilità di tali risorse; tale condizione dovrà essere sciolta prima dell’inizio delle operazioni di voto;
- prevedere se vi saranno le condizioni di adeguatezza patrimoniale dell’impresa al momento della omologazione, quando cesseranno gli effetti sospensivi delle norme a tutela dell’effettività del capitale sociale operati dall’art. 182-sexies;
- stimare se la moratoria di un anno dei crediti privilegiati gravanti su beni funzionali alla prosecuzione dell’attività18, previsto dall’art. 186-bis, comma secondo, lettera c), sia compatibile con la continuità oppure se sottragga risorse finanziarie al punto da impedire la prosecuzione dell’attività, tenuto conto che, nella diversa ipotesi liquidatoria, tali somme non sarebbero dovute entro l’anno dall’omologazione, bensì al momento, eventualmente successivo, della liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione19.
5. Diversità di valutazioni fra liquidazione concordataria e fallimentare
Nel procedere a valutare l’attivo nelle due ipotesi della liquidazione concordataria e fallimentare occorre tenere presente alcuni aspetti peculiari che le differenziano.
In primo luogo nel concordato liquidatorio è necessaria la nomina del liquidatore, fatto salvo il caso del concordato “preconfezionato” (se ed in quanto lo si reputi ammissibile), mentre nel fallimento essa non è prevista, poiché l’attività di liquidazione è svolta dal curatore. Il costo del liquidatore può certamente essere contenuto ove sia lo stesso debitore a indicare un soggetto in possesso dei requisiti di cui all’art. 28 col quale abbia predeterminato il compenso; si tratta comunque di un costo aggiuntivo di cui si dovrà tenere conto.
In secondo luogo, qualora tra i beni non funzionali da liquidare rientrino anche beni immobili, è probabile che i prezzi lucrati in una dismissione concordataria saranno più elevati rispetto al fallimento. La conferma emerge da un recente studio di Nomisma sulle vendite immobiliari tramite asta20. I dati sono davvero sorprendenti: risulta, infatti, un sensibile divario di prezzo delle vendite in asta rispetto alle vendite sul mercato libero, pari al 15% in meno sul mercato residenziale ed addirittura al 25-50% in meno per le altre destinazioni d’uso.
Le cause dell’inefficienza del mercato d’asta risiederebbero nella modalità di partecipazione complicata (25%), incertezza/lunghezza del trasferimento (20%), scarsa finanziabilità (40%) e scarsa pubblicità (15%). Ed è possibile, ma lo studio di Nomisma non ne fa cenno, che in asta vengano espressi valori inferiori a quelli ottenibili mediante una libera contrattazione di mercato anche per l’assenza di garanzie sui vizi della cosa ex art. 1490 c.c. che le vendite fallimentari, in quanto esecuzioni forzate collettive, comportano, considerato il tenore dell’art. 2922 c.c.21.
Non solo: risultano lunghissimi i tempi della dismissione. Su 16.000 aste tenute ogni anno, soltanto l’8% giunge ad un’aggiudicazione, e mediamente ciò avviene dopo la quinta asta. A distanza di tre anni dal deposito della CTU, soltanto il 47% degli immobili risulta venduto, il che appare incompatibile con i concordati liquidatori22. Ancora, i prezzi d’aggiudicazione in asta risultano sensibilmente inferiori al valore di CTU: mediamente il 53% in meno, con il comparto residenziale che viene valutato in eccesso del 40% del valore di aggiudicazione, quello commerciale e ricettivo di oltre il 50%, quello industriale addirittura dell’84%.
E sebbene la vendita in ambito concorsuale effettuata tramite le regole del codice di rito rappresenti una facoltà e non un obbligo (art. 107, secondo comma), essendo sufficiente esperire procedure competitive (art. 107, primo comma), è tuttavia esperienza comune che essa rappresenti la prassi nei fallimenti. Per converso, in forza dell’inciso “Se il concordato consiste nella cessione dei beni e non dispone diversamente…” contenuto nell’art. 182, primo comma, il quale consente secondo taluni di derogare al successivo quarto comma e quindi agli artt. da 105 a 108-ter ivi richiamati in materia di vendita dei beni in ambito fallimentare, nel concordato si assiste ad una maggiore libertà nell’adozione delle tecniche liquidatorie.
In terzo luogo, nel concordato, sia esso di continuità che liquidatorio, in caso di scioglimento dei contratti è dovuto il risarcimento del danno da liquidarsi comunque in moneta concorsuale (art. 169-bis, comma secondo), mentre nel fallimento non è dovuto alcun risarcimento del danno (art. 72, comma quarto). Va tuttavia rimarcato che, qualora l’inadempimento maturi in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento e non per effetto dello scioglimento dal contratto determinato ai sensi dell’art. 72 e seguenti, il relativo risarcimento sarà dovuto anche in ipotesi fallimentare23.
In quarto luogo, l’azione revocatoria può essere esperita nel solo ambito fallimentare, essendo preclusa nel concordato. I vantaggiosi riflessi economici di tale azione in ambito fallimentare potranno tuttavia essere presi in considerazione dall’attestatore soltanto qualora i relativi atti, pagamenti e garanzie appaiano essere manifestamente revocabili onde, nonostante l’alea giudiziale, sia possibile pronosticare un vittorioso esito dell’azione.
Di questi fattori, e di altri che emergono dalla pratica di ciascun professionista, occorre tenere conto quando si valutino le due alternative liquidatorie – concordataria e fallimentare – rispetto alla prosecuzione dell’attività.
Note:
[1] Dubitativo VITIELLO, Le soluzioni concordate della crisi di impresa, Giuffré, 8, per il quale “miglior soddisfacimento” potrebbe significare convenienza in termini di maggiori prospettive di realizzo, mentre “miglior soddisfazione” potrebbe avere riguardo alla convenienza legata ad altri aspetti (tempistica pagamenti, maggiori garanzie etc.).
[2] Stante la formulazione letterale dell’art. 186-quinquies, i finanziamenti interinali non sono limitati all’ipotesi del concordato in continuità, ben potendo essere contratti anche nell’ambito di concordati liquidatori, sebbene l’ipotesi appaia di remota applicazione nella pratica.
[3] STANGHELLINI, Il concordato con continuità aziendale, in Fallimento, 2013 (10), 1230 ove in nota 30 viene fornita una rassegna delle diverse posizioni dottrinarie e giurisprudenziali sulla compatibilità o meno tra affitto d’azienda e concordato in continuità. Si aggiungano le posizioni, là non citate, di AMBROSINI, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in ilcaso.it, 5 ss e MAFFEI ALBERTI, sub art. 186-bis, in Commentario breve alla legge fallimentare, 2013, 1238, per i quali l’affitto prodromico alla cessione d’azienda stipulato dopo il ricorso ex art. 161 costituisce ipotesi di continuità.
[4] E’ interessante notare che nel caso analogo della valutazione comparativa ai fini della falcidia dei creditori privilegiati (art. 160, secondo comma), la dottrina ritiene che per “ricavato in caso di liquidazione” debba intendersi quello ottenibile a seguito di una liquidazione fallimentare, giacché il concordato preventivo è una procedura concorsuale tesa a sottrarre l’impresa al fallimento. Nel caso che qui ci occupa le conclusioni non possono che essere diverse, considerato che un’alternativa al concordato in continuità può ben essere rappresentata da un concordato liquidatorio, e non soltanto da un fallimento.
[5] Oltre alla circostanza che nell’amministrazione straordinaria la continuità è in funzione dalla conservazione delle componenti produttive dell’impresa e del mantenimento dei livelli occupazionali mentre nel concordato essa è a tutela del miglior soddisfacimento dei creditori (vedasi par. 3.1), va rilevato che nella prima procedura non è dato conoscere ex ante il grado di soddisfacimento dei creditori.
[6] Contra, Lamanna, La legge fallimentare dopo il “Decreto sviluppo”, in Il civilista, Milano, 2012,,61, secondo il quale sono solo due le possibili alternative in comparazione, e “vanno individuate solo con riferimento alle altre possibili forme di attuazione del concordato: in tal caso, infatti, non si tratta né di una condizione di ammissibilità, né di una condizione di omologabilità del concordato (casi in cui si esige un confronto con un’alternativa soddisfazione fallimentare), ma solo di una condizione di configurabilità delle procedure “con continuità aziendale”. Le alternative possono quindi essere, sia nel concordato che negli accordi, la cessione o vendita pura e semplice dei beni (senza prosecuzione dell’attività), in blocco o mediante liquidazione atomistica, più o meno immediatamente”.
[7] Eppure si è assistito anche recentemente a prese di posizione di segno opposto; così CAMODECA, L’attestazione del professionista nel concordato con continuità e la miglior soddisfazione dei creditori, convegno La continuita’ aziendale nel concordato preventivo, Mantova, 4 ottobre 2013, video su ilcaso.it, con l’argomentazione che per molti creditori conti di più la prosecuzione dell’attività che un’elevata percentuale ad essi offerta. Così pure nel documento di sintesi del convegno indetto dai giovani commercialisti ed esperti contabili Il concordato in continuità: i protagonisti si confrontano, Modena, dal 19 al 21 settembre 2013, si è sostenuto che “non è solo nel dato numerico (percentuale in più o in meno) che sta la convenienza, ma può risiedere in mille variabili che valgono operatore per operatore”.
[8] Principio elaborato sia dalla giurisprudenza nazionale (Cassazione n. 5927/1981) che comunitaria (Corte Giustizia, T-216/96 e T-143/99).
[9] Invece in questi termini si esprime VITIELLO, Brevi (e scettiche) considerazioni sul concordato preventivo con continuità aziendale, in ilfallimentarista.it, 3, per il quale “non pare che nella nozione di miglior soddisfacimento possano rientrare parametri di valutazione diversi da quelli della percentuale finale offerta ai creditori”.
[10] Dello stesso avviso, seppure apoditticamente, LO CASCIO, Il professionista attestatore, in Fallimento, 2013 (11), 1332.
[11] La necessità di un controllo di “coerenza complessiva delle conclusioni finali prospettate” da parte dell’attestatore è richiamata dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1521/2013, punto 14.1.
[12] Non potendosi in tal caso derogare all’art. 2740 c.c.; in tal senso tra le più recenti, Appello Roma, 5 marzo 2013, in ilcaso.it, ove: “La cessione parziale dei beni ai creditori è ammissibile solamente nell’ambito di un concordato che favorisca la conservazione dell’impresa; essa non può, pertanto, essere prevista in un concordato esclusivamente liquidatorio” e Tribunale Ravenna 29 ottobre 2013, su ilcaso.it.
[13] E, nello stimarli, l’attestatore dovrà verosimilmente valutare l’incidenza negativa sulle vendite dell’impatto reputazionale dovuto alla messa in concordato.
[14] Salvo che il tribunale o il giudice delegato autorizzino la cessione di beni significativi in epoca antecedente al completamento delle operazioni di voto, così però svuotando di significato l’espressione della volontà dei creditori.
[15] Per gli appalti pubblici cfr. art. 113 D.Lgs. 163/2006.
[16] Per gli appalti pubblici cfr. art. 141 D.Lgs. 163/2006.
[17] Contrario VENEGONI, Concordato in continuità: alcune riflessioni operative (dalla parte dell’advisor), in Ilfallimentarista.it, 3. Qualora si acceda a tale tesi restrittiva e penalizzante per l’ipotesi della continuità, vi è da valutare che, per coerenza, occorrerà in qualche misura prendere in considerazione, in senso favorevole alla stessa continuità, anche i maggiori valori dei beni strumentali necessari per la prosecuzione dell’attività, trattandosi di beni che, quantunque non cedibili nell’immediato, sono destinati a restare in ambito aziendale, consentendo ai creditori di conservare la garanzia patrimoniale rappresentata in ultima istanza dalla espropriabilità, individuale o collettiva, di detti beni.
[18] Moratoria che non riguarderà il caso: a) di accordi extraconcordatari specificamente destinati a regolare le modalità di pagamento nel nuovo senso voluto dalle parti (LAMANNA, Concordato: la scadenza immediata delle obbligazioni e l’obbligo, inderogabile, di pagare gli interessi sui crediti privilegiati, in Ilfallimentarista.it, blog), quali quelli che si perfezionano, talvolta anche in pendenza di procedura, con gli enti impositori o con il concessionario della riscossione, né il caso: b) di creditori privilegiati che siano stati inseriti in un’apposita classe e abbiano approvato la proposta concordataria con il proprio voto favorevole (ARATO, Il concordato con continuità aziendale, in Ilfallimentarista.it, 7).
[19] Beninteso qualora si acceda alla interpretazione che tale termine sia invalicabile (cfr. Lamanna, La legge fallimentare dopo il “Decreto sviluppo”, in Il civilista, Milano, 2012, 62). Sul punto esiste anche una lettura antitetica, secondo la quale sarebbe possibile prevedere moratorie superiori all’anno, purché si consenta ai creditori privilegiati di esercitare il diritto di voto. Favorevoli a quest’ultima tesi, AMBROSINI, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in ilcaso.it, 11 ss e BONFATTI, La disciplina dei crediti privilegiati nel concordato preventivo con continuità aziendale, in ilcaso.it, 2 ss. Su una posizione intermedia si posiziona STANGHELLINI, Il concordato con continuità aziendale, cit., 1242, per il quale la derogabilità al termine annuale sussisterebbe unicamente per i crediti aventi prelazione speciale su beni non destinati alla vendita e non anche per i crediti aventi privilegio generale, essendo il patrimonio posto a loro garanzia continuamente utilizzato dal debitore.
[20] DONDI (direttore generale di Nomisma), Atti del seminario di Capri sul concordato preventivo, 27-29 settembre 2013.
[21] Per PERRINO, La liquidazione dei beni nel fallimento e nei concordati mediante cessione, in Giurisprudenza commerciale, 2009 (4), 680, è più che accreditata la tesi dell’applicabilità anche alle vendite fallimentari delle regole tratte dagli artt. 2919 ss. c.c., compreso l’art. 2922; per CNDCEC, La Relazione giurata estimativa del professionista nel Concordato Preventivo e nel Concordato Fallimentare, Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, Roma, 2009, tale circostanza incide in modo peggiorativo sul prezzo di aggiudicazione.
[22] Secondo il Trib. di Modena, 13 giugno 2013, in ilcaso.it, i procedimenti di natura liquidatoria, e specificamente i concordati, devono avere una durata massima di tre anni. Tale termine è ritenuto dal collegio ragionevolmente contenuto, in conformità alla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1521/2013, in quanto non supera la durata massima delle esecuzioni forzate prevista dalla L. 89/2011 (c.d. legge Pinto sulla giusta durata del processo). Risulta evidente che se, dopo tre anni dal varo delle aste, soltanto il 47% degli immobili viene venduto occorre rivedere i termini di durata massima dei concordati liquidatori in presenza di patrimonio immobiliare oppure adottare stime inferiori rispetto al passato, in modo da rendere probabile la dismissione dei beni in un arco temporale più ristretto.
[23] PAJARDI, Codice del Fallimento, Giuffré, 2013, 885 con ampi riferimenti dottrinali in tema.