di Pier Giorgio Cecchini
La composizione negoziata verrà sempre usata in modo legittimo dai debitori? Ovviamente no: troppe le tentazioni di sfruttarla come espediente per ritardare la liquidazione giudiziale, come pretesto per lo scivolo al concordato semplificato, come strumento anticoncorrenziale. In questo articolo l’Autore analizza i casi in cui l’esperto è investito del compito di arginare possibili strumentalizzazioni.
Sommario
- Premessa
- L’esperto Terminator
- Per chi suona la campana
- La caduta dello “scudo spaziale”
- I pagamenti dannosi
- Concordato semplificato e meritevolezza
- Condotte anticoncorrenziali
- L’agire informato
- Piano e shit detectors
- Conclusioni
1. Premessa
La composizione negoziata verrà sempre usata in modo legittimo dai debitori? Ovviamente no: troppe le tentazioni di sfruttarla come espediente per ritardare la liquidazione giudiziale, come pretesto per lo scivolo al concordato semplificato, come strumento anticoncorrenziale.
In questo istituto, in cui l’autorità giudiziaria non sovraintende l’intero processo ma opera soltanto a chiamata, è l’esperto a rappresentare il primo argine rispetto a possibili strumentalizzazioni; è lui, infatti, che tra tutti gli attori della composizione si trova nella situazione di maggiore prossimità con il debitore, e quindi può più facilmente intercettare eventuali abusi.
I poteri di cui l’esperto dispone hanno una portata limitata, ma possono comunque essere utili a prevenire o mitigare i danni da uso improprio dello strumento, e sebbene la disciplina non contenga norme specifiche sulla responsabilità dell’esperto, la circostanza che tali poteri gli siano conferiti nell’interesse altrui porta a ritenere che egli abbia il dovere di utilizzarli nelle ipotesi gravemente patologiche. D’altronde, se non lui, chi altri? Nel prosieguo illustrerò alcuni di questi casi. Per agio di lettura, i riferimenti normativi riportati senza specifica indicazione della fonte giuridica saranno riferiti al codice della crisi.
A fini interpretativi farò ampio riferimento all’articolato della Direttiva UE 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione (“Direttiva”), in ossequio al c.d. obbligo di interpretazione conforme delle leggi nazionali al diritto comunitario, nonché ai suoi considerando; infatti la disciplina della composizione è (ora) esplicitamente inserita in un decreto legislativo di recepimento della Direttiva.
2. L’esperto Terminator
Con l’archiviazione, l’esperto ha il potere di “terminare” anticipatamente la composizione negoziata, precludendo al debitore nuove istanze per almeno un anno ( art. 17, comma 9). Tale potere, l’esperto lo esercita dando notizia della mancanza di “concrete prospettive di risanamento” all’imprenditore e al segretario generale della camera di commercio, il quale dispone l’archiviazione dell’istanza; l’iniziativa può essere esercitata dall’esperto in qualunque fase del procedimento, a decorrere dalla prima audizione dell’imprenditore (art. 17, comma 5).
L’archiviazione ha importanti conseguenze.
Da tale momento:
- il giudice deve revocare le misure protettive e cautelari (art. 19, comma 6);
- può essere aperta la liquidazione giudiziale (art. 18, comma 4);
- viene ripristinato l’obbligo di gestione conservativa, cioè il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale (art. 20, comma 1);
- cessa lo scudo penale dal reato di bancarotta preferenziale e delle bancarotte semplici, in particolare dell’aggravamento del dissesto (art. 24, comma 5);
- viene ripristinata l’operatività dell’art. 38 (temporaneamente sospesa dall’art. 12, comma 3) e così l’obbligo dell’autorità giudiziaria di segnalare l’insolvenza al pubblico ministero anche quando la notizia dell’insolvenza emerga al di fuori dei procedimenti giurisdizionali relativi alle misure protettive e cautelari e delle autorizzazioni giudiziali, nonché la facoltà di quest’ultimo, da chiunque abbia ricevuto notizia dell’insolvenza, di presentare il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale.
I poteri per così dire oppositivi dell’esperto non si fermano all’archiviazione. Infatti, egli può anche segnalare al giudice l’opportunità di revocare le misure protettive o cautelari (art. 19, comma 6); qualora il giudice provveda conseguentemente, si producono i primi tre effetti dirompenti dell’archiviazione già descritti: cessano appunto le misure stesse, può essere aperta la liquidazione giudiziale (art. 18, comma 4) e viene ripristinato l’obbligo di gestione conservativa (art. 20, comma 2). Inoltre, l’esperto può – e quando sono pregiudicati gli interessi dei creditori deve – iscrivere nel registro delle imprese il dissenso rispetto ad atti o pagamenti anomali; l’iniziativa non ha solo risvolti reputazionali, ma ha anche l’effetto di condurre alla probabile revoca delle misure protettive e cautelari a seguito dell’apposita segnalazione che egli è contestualmente tenuto a fare al giudice (art. 21, comma 5),così determinandosi le stesse tre conseguenze appena descritte.
La segnalazione per la revoca delle misure protettive e cautelari, se accolta, e il dissenso iscritto nel registro imprese su atti o pagamenti anomali non causano direttamente la fine del procedimento ma possono accelerarla e comunque determinare l’abbandono del tavolo negoziale da parte di creditori determinanti per gli accordi.
Ancora, l’esperto può esprimere pareri negativi quando richiestogli per legge (cioè sulla concessione di misure protettive ex art. 19, comma 4 e sui presumibili risultati della liquidazione del concordato semplificato ex art. 25-sexies, comma 3) o dal giudice. Infine, con la propria relazione finale l’esperto può precludere l’accesso del debitore al concordato semplificato (art. 25-sexies, comma 1).
3. Per chi suona la campana
Il legislatore della composizione negoziata ripone molta, troppa fiducia nelle trattative come mezzo di risoluzione dei casi gravi di crisi dell’impresa (e così pure la dottrina: N. Abriani, Concordato preventivo e ristrutturazione dell’impresa dopo il D.L. n. 118/2021: Que restet-il?, in DC, 2022), ma quando gli attivi sono solo una frazione modesta dei passivi e non esistono regole tassative per distribuirli, ogni creditore tenta di accaparrarsene la maggior parte possibile, anche attraverso comportamenti ostruzionistici o di studiata lentezza.
Il legislatore tenta di contrastare questa anarchia negoziale imponendo alle parti interessate obblighi di buona fede, ponendoli di fronte allo spettro del concordato semplificato (per questo definita un’arma poco etica da G. Bozza, Il concordato semplificato introdotto dal d.l. n. 118 del 2021, convertito, con modifiche dalla l. n. 147 del 2022, in DC, 2021) e sterilizzando parzialmente il dissenso tramite gli accordi ad efficacia super-estesa. Ma resta il fatto che, in una libera trattativa, un “no” del debitore a richieste incalzanti del creditore è sempre ritrattabile.
Nel concordato preventivo invece non ci sono spazi di negoziazione: con il deposito della domanda il debitore brucia i vascelli alle proprie spalle, come fece Cortés che così conquistò l’intero Messico con uno sparuto esercito di 500 uomini. Il debitore cioè con la proposta concordataria formula quello che nella teoria dei giochi viene definito un impegno credibile, ed è tale una promessa (o minaccia) quando chi la assume fa in modo di non poterla più revocare (A. V. Dixit, B. J. Nalebuff, Thinking strategically, Norton, 1991). Così, nel concordato il creditore è posto davanti alla scelta di accettare o rigettare la proposta senza poterla negoziare, e se l’attestazione di non deteriore soddisfacimento rispetto alla liquidazione giudiziale è convincente, gli converrà la prima soluzione.
Quindi, se la crisi è profonda e i sacrifici da chiedere ai creditori sono ingenti, il concordato mantiene ancora un vantaggio competitivo rispetto alla composizione, ove invece elevato è il rischio di trovarsi invischiati in trattative bizantine che sfociano nel nulla.
Della possibile deriva delle trattative non tiene conto il decreto dirigenziale del 28 settembre 2021, limitando sostanzialmente il potere di archiviazione alla sola insolvenza irreversibile (ma anche alla insolvenza reversibile se già esistente al momento della richiesta di nomina dell’esperto secondo Trib. Siracusa, 14 settembre 2022, in questo portale), che si verificherebbe al ricorrere di tre condizioni congiunte: (i) continuità aziendale che distrugge risorse; (ii) indisponibilità dell’imprenditore a immettere nuove risorse; (iii) assenza di valore del compendio aziendale (§ 2.4, Sezione III).
Quanto alla distruzione di risorse (i), il Considerando 33 della Direttiva Insolvency individua come condotta tipica di un debitore che non è in grado di pagare i debiti in scadenza, e che quindi accumula passivo (non prededucibile, ma sempre passivo è), il mancato pagamento di debiti correnti verso i lavoratori, le agenzie fiscali e gli istituti previdenziali e assistenziali. Esistono però anche altri indicatori di una continuità che distrugge risorse (si veda, se si vuole, P.G. Cecchini, Gli obblighi informativi “rafforzati” nel concordato in continuità, cap. 2.3, in ilcaso.it, 18 gennaio 2021).
Quanto alla volontà o meno dell’imprenditore di assumere impegni finanziari (ii), la si accerta facilmente chiedendoglielo e non accontentandosi di generiche rassicurazioni bensì esigendo impegni giuridicamente vincolanti e garantiti.
Quanto all’assenza di valore dell’azienda (iii), non sempre è necessario accertarla con una perizia o una sollecitazione del mercato, che richiedono tempo bruciando ulteriori risorse: basta un conto economico insanabilmente in deficit.
È equiparabile all’assenza di valore il caso in cui l’azienda presenti un valore positivo ma sia gravata da debiti tributari di importo eguale o superiore; infatti, chi diventi cessionario di un’azienda nell’ambito della composizione negoziata, in forza di autorizzazione giudiziale ex art. 22, comma 1, lett. d), e quindi in deroga all’art. 2560 c.c., continua comunque a rispondere in solido dei debiti tributari della cedente anche se non risultano dalle scritture contabili.
Tale responsabilità solidale deriva infatti dall’art. 14, comma 1,D.Lgs. 472/1997, che è norma speciale rispetto a quella generale dell’art. 2560 c.c. (Cass. 11678/2022), e per escluderne la portata occorre posticipare la cessione dell’azienda – se le circostanze e il tempo a disposizione lo consentono – ad una successiva procedura concorsuale, ad un accordo di ristrutturazione dei debiti o ad un piano attestato/asseverato, ove opera la deroga dell’art. 14, comma 5-bis di detto decreto legislativo (ma ritiene che la deroga operi anche nel caso della cessione autorizzata in pendenza di composizione negoziata D’Attorre, La concorsualità “liquida” nella composizione negoziata, in Il Fall., 2022, 3, 308).
È però evidente che quando si affida il risanamento ad un percorso negoziale, il suo esito dipende non soltanto dall’attivo disponibile ma anche dall’incontro delle volontà delle parti coinvolte, e se fra queste ci sono “recalcitrant parties” di peso determinante, nessun risanamento è concretamente possibile.
Della eventuale deriva delle negoziazioni, di cui non tiene conto il decreto dirigenziale, tiene invece conto la Direttiva, secondo la quale l’autorità giudiziaria può revocare le misure protettive se risulta evidente che una parte significativa dei creditori non sostiene la continuazione delle trattative (di più sul punto al cap. 3). Beninteso, la revoca delle misure in sé non interrompe direttamente la composizione ma erode ulteriormente i consensi decretando nella maggior parte dei casi la fine di ogni speranza di ristrutturazione basata su accordi e rendendo opportuna l’archiviazione.
Il principio è utilmente applicabile nel contesto nazionale, e l’esperto potrà formarsi un giudizio sulle inclinazioni dei creditori rispetto alle proposte formulate interpellandoli direttamente, considerato che può chiedere ogni informazione ritenuta utile o necessaria per lo svolgimento dell’incarico (§ 8.3, Sezione III); rilevante sarà anche la notizia di precedenti tentativi negoziali di composizione della crisi andati a vuoto, soprattutto se protrattisi per lungo tempo.
L’archiviazione deve essere valutata anche quando a non sostenere il risanamento siano altre parti interessate, come i sindacati e i dipendenti, quando esso (risanamento) si fondi su un licenziamento collettivo o su una cessione di azienda preceduta da riduzioni di organico, considerato che soltanto gli accordi sindacali e individuali possono assicurare stabilità di effetti a tali iniziative di ristrutturazione. Naturalmente per giustificare un’archiviazione non bastano le difficoltà nelle trattative con i creditori o altre parti interessate, ma occorre anche la “manifesta dannosità” della prosecuzione, tale da incrementare il passivo e/o far spirare il periodo sospetto per eventuali azioni revocatorie, non operando nella composizione negoziata la consecuzione tra procedure concorsuali.
In conclusione, ritengo che sia legittima l’archiviazione in pendenza di trattative per mancanza di concrete prospettive di risanamento quando congiuntamente: (i) risulti evidente che una parte significativa delle parti interessate non appoggia la continuazione delle trattative e (ii) vi sia il rischio di aggravamento del passivo e/o consolidamento di atti, pagamenti o titoli di prelazione revocabili.
Si tratta di un’interpretazione pienamente compatibile con l’art. 17, comma 5, secondo il quale l’archiviazione è chiesta quando non sono ravvisabili concrete prospettive di risanamento.
Fa eccezione il caso in cui sia in corso un tentativo di vendita dell’azienda autorizzato giudizialmente (art. 22, comma 1 lett. b) e incomba il rischio di perdita della continuità aziendale, ad esempio per grave carenza di liquidità: in questo caso è sconsigliabile il differimento della vendita ad una successiva procedura concorsuale, perché si deprezzerebbero o annullerebbero i valori in gioco.
Questi tempi difficili richiedono coraggio, ed anche oggi, come ai tempi della Grande Depressione, “l’unica cosa di cui avere paura è la paura stessa” (F.D. Roosevelt).
Tuttavia, quando l’esperto constati che le trattative si sono fatte improduttive ma voglia sfilarsi da eventuali responsabilità – se mai esistenti – da archiviazione prematura, potrà limitarsi, con l’apposita segnalazione ex art. 19, comma 6, ad affidare al giudice ogni sindacato in ordine alla revoca delle misure protettive e, così, al ripristino della liquidabilità giudiziale e dell’obbligo di gestione conservativa; una volta revocate, se sia evaporata ogni concreta prospettiva di risanamento, egli potrà procedere a chiedere l’archiviazione più a cuor leggero.
4. La caduta dello “scudo spaziale”
Dunque, la revoca delle misure protettive non ha soltanto l’effetto di consentire nuovamente l’aggressione del patrimonio ma anche di rendere nuovamente pronunciabile la liquidazione giudiziale e di ripristinare l’obbligo della gestione conservativa; si tratta quindi di un provvedimento che ha una portata pressoché letale sulle trattative, essendone prescritta la pubblicazione nel registro delle imprese.
L’esperto è tra i possibili promotori della notizia al giudice, il quale revoca o abbrevia la durata delle misure protettive e cautelari quando: (i) non soddisfano l’obiettivo di assicurare il buon esito delle trattative o (ii) appaiono sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori istanti (art. 19, comma 6).
Le stesse due fattispecie, oltre ad altre, sono espresse nell’art. 6, comma 9, della Direttiva.
Esaminiamole, tenendo conto che le conclusioni interpretative di seguito illustrate per il caso della revoca possono essere utilmente adottate anche per la mancata conferma delle misure (su cui esiste già copiosa giurisprudenza); ipotesi della quale l’esperto non è promotore ma comunque è un soggetto che deve essere obbligatoriamente interpellato dal tribunale (art. 19, comma 4).
(i) Le misure non soddisfano l’obiettivo di assicurare il buon esito delle trattative
Quanto alla ipotesi di revoca delle misure protettive per inutilità, l’art. 6.9 (a) della Direttiva indica che lo stay non soddisfa più l’obiettivo di agevolare le trattative quando, ad esempio, una parte significativa di creditori non ne appoggia la continuazione, intendendo per significativa una parte che può impedire l’adozione del piano di ristrutturazione ai sensi del diritto nazionale.
Ma qual è questa parte che può impedire l’adozione del piano di ristrutturazione ai sensi del diritto italiano, tenuto conto delle variegate forme di accordo previste come esito delle trattative elencate all’art. 23 comma 1 e 2?
Non si può certamente prendere a riferimento la percentuale di crediti che può impedire l’adozione degli accordi di ristrutturazione agevolati ex art. 60 per dedurre che le trattative possano proseguire indisturbate fino a quando i dissensi siano inferiori al 70% dei crediti, per l’insanabile contraddizione che a tali accordi può accedere solo l’impresa che non abbia richiesto e rinunci a richiedere misure protettive. In linea di principio si potrebbe invece fare riferimento agli accordi di ristrutturazione ex art. 57 per ritenere che le misure protettive e cautelari non siano revocabili quando la fronda di creditori renitenti sia portatrice di crediti in misura inferiore al 40% dei crediti totali; tuttavia è necessario anche un secondo stadio di analisi di tipo quantitativo, perché occorre verificare se il debitore possa comunque sostenere il pagamento integrale e nei ristretti termini di legge (centoventi giorni dall’omologazione o dalla scadenza originaria, se successiva) dei creditori non aderenti, a meno che se ne possa trascinare una parte cospicua tramite accordi ad efficacia super-estesa.
Infine, non mi pare si possano prendere a riferimento per questa analisi le altre forme di accordi previste dai primi due commi dell’art. 23, avendo natura totalmente consensuale.
La Direttiva formula il solo esempio del mancato appoggio dei creditori, ma anche altri parti interessate possono non appoggiare le trattative rendendo inutile lo stay; può trattarsi, come visto nel cap. 2, di sindacati e dipendenti che non acconsentono ad un licenziamento collettivo o ad un trasferimento di azienda previa riduzione di organico.
(ii) Le misure appaiono sproporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori istanti
Quanto invece all’ipotesi di revoca delle misure protettive per sproporzionato pregiudizio ai creditori, a sua volta prevista dall’art. 6.9(c) della Direttiva, il Considerando 36 precisa che per determinare se esso sia tale da legittimare la rimozione dello stay occorre valutare “se la sospensione preservi il valore complessivo della massa fallimentare”.
Il riferimento è in realtà al patrimonio (“estate” nella versione inglese) nella sua interezza, quale generica garanzia a favore di tutti i creditori, che le misure protettive e cautelari potrebbero mettere a repentaglio, ad esempio quando siano al servizio di un’indiscriminata prosecuzione dell’attività che brucia liquidità – asset generico per eccellenza – oppure consentano rovinose vendite sottocosto di magazzino e altri atti dissipativi. Il tema è ulteriormente affrontato nel Considerando 37 che si occupa del pregiudizio subìto dai creditori titolari di garanzie reali (collateral) su beni compresi nel patrimonio qualora, per esempio, “risultassero in una situazione sostanzialmente peggiore di quella in cui si troverebbero senza la sospensione, o il creditore risultasse svantaggiato rispetto agli altri creditori che si trovano in una posizione simile”.
A dire il vero, non è ben chiaro a cosa si riferiscano questi esempi (così anche C. G. Paulus – R. Damman, European preventive restructuring, Monaco, 2021, p. 122). Tuttavia, l’art. 6.4(a) della Direttiva e il Considerando 34 offrono spunti interpretativi interessanti, anche se resi nel contesto della concessione, anziché della revoca, dello stay (ma i fondamenti logici sono gli stessi).
Vi si afferma la superfluità di una misura protettiva su beni in garanzia la cui esecuzione forzata non metta a rischio la ristrutturazione, cioè su beni non funzionali alla continuità, come può essere il caso di una collezione di quadri di valore pignorati o più semplicemente di immobili ipotecati diversi da quelli in cui viene svolta l’attività.
Si mette anche in evidenza l’ingiusto pregiudizio che graverebbe sui creditori in caso di diminuzione della garanzia offerta da beni soggetti a misure protettive, situazione che evoca l’art. 2743 c.c.; potrebbe trattarsi, nel caso di beni mobili, del rischio di dispersione in caso di pegno non possessorio, e, nel caso di beni immobili ipotecati, della mancata stipulazione di coperture assicurative, mancata manutenzione, stipulazione di contratti per lunghe locazioni, anticipazione di affitti ed altri.
Sempre restando all’ipotesi (ii) di revoca delle misure protettive per sproporzionato pregiudizio ai creditori, il medesimo Considerando 36 della Direttiva indica anche il caso del debitore che “agisca in malafede o con l’intento di arrecare pregiudizio o, in generale, agisca contro le aspettative legittime della massa dei creditori”.
A ben vedere si tratta di una sorta di previsione anti-abuso generale di revoca delle misure protettive, che si affianca al caso specifico degli atti e pagamenti non autorizzati (art. 21, comma 5).
Un parallelismo con la giurisprudenza formatasi sulla revoca nel concordato è di sicuro ausilio nell’individuarne alcuni casi applicativi, il più significativo dei quali è il comportamento fraudolento rappresentato dal silenzio consapevole e intenzionale del debitore su circostanze idonee ad influire sul consenso dei creditori a stipulare accordi (in assonanza con Cass. n. 26646/2018 in tema di revoca del concordato preventivo per coartazione del consenso dei creditori).
Questa, in sintesi, la disciplina dei casi di revoca (o mancata conferma) delle misure protettive e cautelari di cui sia accertata l’inutilità o che arrechino uno sproporzionato pregiudizio ai creditori. La decisione ultima spetta al giudice, ma l’esperto può avervi un ruolo.
5. I pagamenti dannosi
Vorrei qui soffermarmi sul caso dei pagamenti dannosi, e in particolare dei pagamenti diversi da quelli finalizzati a preservare il ciclo degli approvvigionamenti di beni o servizi, ai quali il decreto dirigenziale suggerisce di fare particolare attenzione (§ 7.4, Sezione III). Come noto la disciplina della composizione consente di effettuare il pagamento di crediti anteriori alle misure protettive (art. 18, comma 1), e quindi sarà molto frequente il caso di fornitori che tenteranno di imporre il pagamento di debiti pregressi in contropartita di forniture correnti, considerato anche che i crediti per nuove forniture non godono della prededuzione e non possono formare oggetto di recupero coattivo.
Presentandosi il caso, dovranno essere considerati potenzialmente dannosi, cioè “non coerenti rispetto alle trattative o alle prospettive di risanamento” (art. 21, comma 2), e quindi soggetti ad informativa preventiva ed eventuale iscrizione del dissenso, i pagamenti di crediti anteriori a fornitori che:
- siano controparti di contratti pendenti, cioè ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti nelle prestazioni principali da entrambe le parti; controparti comunque tenute ad assicurare la continuità delle prestazioni (art. 18, comma 5), oppure
- offrano beni e servizi facilmente reperibili presso altri soggetti, cioè non godano di una posizione monopolistica in quella determinata area e in quel determinato periodo di tempo; a ben vedere anche nel concordato tali pagamenti di crediti anteriori non sarebbero autorizzabili ex art. 100, comma 1, mancando il requisito dell’essenzialità (cioè insostituibilità).
A maggior ragione tali pagamenti saranno “sospetti” quando ne beneficino parti correlate.
Il decreto dirigenziale suggerisce di istituire già nel corso del primo incontro un protocollo dei tempi e modi dell’informativa preventiva su atti e pagamenti eccedenti l’ordinaria amministrazione, fornendone anche un’elencazione esemplificativa (§ 7, Sezione III). A questo elenco è bene che l’esperto aggiunga anche la fattispecie dei pagamenti di crediti di natura commerciale e finanziaria sorti anteriormente alle misure protettive.
Come noto, l’iscrizione del dissenso dell’esperto nel registro delle imprese lo obbliga a segnalare la circostanza al giudice per la revoca delle misure protettive e cautelari (art. 21, comma 5).
6. Concordato semplificato e meritevolezza
Quando l’esperto dà atto nella relazione finale che le trattative si sono svolte secondo correttezza e buona fede, che non hanno avuto esito positivo e che le soluzioni individuate ai sensi dell’articolo 23, commi 1 e 2, non sono praticabili, il debitore può presentare una domanda di concordato semplificato (art. 25-sexies, comma 1). Nel caso invece in cui l’esperto non ravvisi i presupposti o taccia sull’argomento (ma sarebbe bene che si esprimesse), il debitore è costretto a virare verso un’altra procedura di risoluzione della crisi.
Dato che i vantaggi esorbitanti (li definisce tali F. Lamanna, Il concordato semplificato: incentivo per la composizione negoziata o arma “sleale” e “letale”?, in ilfallimentarista.it, 27 aprile 2022) del concordato semplificato sono tutti del debitore, in questo contesto correttezza e buona fede devono essere riferiti al suo comportamento nelle trattative, non a quello dei creditori. Quei vantaggi, il debitore se li deve guadagnare.
Qui di seguito un mio personalissimo decalogo di sette controlli sulla sussistenza di tale presupposto soggettivo, che certamente manca quando la composizione viene ridotta ad un vuoto simulacro formale per fini dilatori o di accesso al concordato semplificato.
Primo, manca la buona fede quando il debitore ammette esplicitamente di aver fatto ricorso alla composizione per accedere al concordato semplificato, come accaduto in un caso noto a chi scrive.
Secondo, occorre che le trattative vi siano state, sicché non può darsi accesso al concordato semplificato in caso di archiviazione immediata, subito dopo la prima audizione dell’imprenditore (art. 19, comma 5). La tenuta di trattative prima o durante la composizione a cui non abbia partecipato l’esperto non rileva, ed è equiparabile alla mancata tenuta di trattative (ritiene indispensabile la partecipazione dell’esperto alle trattative Trib. Milano, 14 maggio 2022).
Terzo, l’imprenditore deve aver rispettato il primo dei due codici di condotta impostigli dall’art. 16, comma 5, cioè deve aver rappresentato la propria situazione agli interessati – quindi anche all’esperto – in modo completo e trasparente (così anche Trib. Firenze 31 agosto 2022). Esula in particolare la buona fede quando l’imprenditore abbia avviato le trattative tacendo la prevedibile assenza di ragionevoli possibilità di risanamento, nonostante questo gli fosse noto o fosse ragionevolmente prevedibile.
Quarto, l’imprenditore deve essersi conformato anche al secondo dei due codici di condotta dell’art. 16, comma 5, cioè deve aver gestito il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori. Non risponde al requisito colui che abbia consapevolmente esposto i creditori al rischio di diminuzione dell’attivo compiendo atti o pagamenti potenzialmente dannosi in dissenso dall’esperto o addirittura a sua insaputa.
Proseguendo nell’elencazione, in quinto luogo occorre che le trattative si siano tenute intorno ad un oggetto; quindi, ai creditori deve essere stata sottoposta una proposta concreta ed ammissibile basata su un piano fattibile, poiché non vi è buona fede nell’incardinare le trattative su una proposta irricevibile o su un piano sgangherato (si veda il cap. 8 per alcuni rilevatori di inattendibilità del piano) o neppure predisposto (per un caso di misure protettive non confermate anche per tale ragione si veda Trib. Ferrara, 27 aprile 2022). La proposta, per essere concreta, deve essere una di quelle previste dall’art. 23, commi 1 e 2, lettera b), cioè contratto, convenzione di moratoria, accordo con gli effetti del piano attestato, accordo di ristrutturazione dei debiti (Trib. Firenze 31 agosto 2022).
Sesto, il debitore deve aver fornito ai creditori una comparazione del soddisfacimento loro assicurato dall’accordo proposto con quello che potrebbero ottenere dalla liquidazione giudiziale, e ciò tanto ai fini di una loro partecipazione informata alle trattative (Trib. Ivrea 27 maggio 2022 e Trib. Firenze 31 agosto 2022) quanto per verificare se il diniego di accettazione della proposta da parte dei creditori sarebbe stato irrazionale (A. Rossi, L’apertura del concordato semplificato, in DC, 2022). Diventa così possibile accertare se il mancato consenso dei creditori sia imputabile a una proposta manifestamente non conveniente: se ne dedurrà che l’imprenditore si è risolto ad accedere alla composizione soltanto animato da “spirito di chicane”.
Settimo, il debitore deve aver optato per lo strumento più adeguato, successivamente rivelatosi impraticabile: ad esempio, in presenza di ingenti debiti tributari o contributivi, per gli accordi di ristrutturazione, unico strumento tra quelli previsti dall’art. 23, commi 1 e 2, lettera b) compatibile con la transazione fiscale (Trib. Bergamo 23 settembre 2022), oppure, quando sia mancata l’adesione di alcuni creditori, per gli accordi ad efficacia super-estesa (A. Rossi, cit.).
Come precisato, è invece irrilevante in questo contesto la correttezza/buona fede dei creditori, cui pure sono tenuti in forza di altra disposizione (art. 16, comma 4), poiché essi hanno il diritto di rifiutare una proposta non soltanto in quanto insoddisfacente sotto il profilo della percentuale e dei tempi di adempimento offerti, ma anche quando mossi da finalità per così dire extra-satisfattive, ad esempio per eliminare un concorrente dal mercato, per ritorsione etc., trattandosi di interessi legittimi, seppure in conflitto con quello del debitore
7. Condotte anticoncorrenziali
La dottrina internazionale ha rilevato l’esistenza di un conflitto potenziale fra le discipline nazionali dell’insolvenza e quella unionale della concorrenza, poiché alcuni istituti, tra i quali il divieto di azioni esecutive, le facilitazioni in materia di trasferimento d’azienda e lo scioglimento dei contratti (non è escluso che il debitore in composizione negoziata possa chiedere la sospensione di un contratto nell’ambito delle misure cautelari, e così ha disposto Trib. Parma, 10 luglio 2022), costituirebbero aiuti di stato suscettibili di distorcere la concorrenza e quindi la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali. In particolare il rischio di violazione riguarderebbe gli artt. 107.1 e 26.2 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (C. G. Paulus, Competition Law versus Insolvency Law: When Legal Doctrines Clash, Oxford University Press, 2013).
Proprio per prevenire usi impropri dei quadri di ristrutturazione preventiva, il Considerando 24 indica che essi dovrebbero essere accessibili nei soli casi in cui vi sia probabilità di insolvenza (o crisi), cioè in situazioni in cui, se la ristrutturazione non fosse attuata, sarebbe ragionevole attendersi che la liquidazione giudiziale non potrebbe essere evitata (C. G. Paulus – R. Damman, European preventive restructuring, Monaco, 2021, p. 90).
La probabilità di insolvenza per essere tale deve potersi trasformare in insolvenza nel giro di pochi mesi, e tanto lo si desume a contrario dal Considerando 28, per il quale la probabilità di insolvenza può verificarsi per difficoltà non finanziarie, come ad esempio la perdita di un appalto importante (o un’azione giudiziaria, la pandemia, la guerra) ed in tal caso “il quadro temporale rilevante per l’individuazione di tale minaccia può estendersi su un periodo di alcuni mesi, o anche più lungo, al fine di tenere conto dei casi nei quali il debitore attraversa difficoltà di natura non finanziaria”.
Il discrimine tra probabilità di insolvenza (o crisi) e probabilità di crisi (o pre-crisi) può essere individuato in modo cartesiano sulla base del Codice: il “quadro temporale rilevante” entro il quale ha probabilità di manifestarsi l’inadeguatezza dei flussi è di dodici mesi nella crisi e dal tredicesimo mese in poi nella pre-crisi (art. 2, comma 1 lett. a) e art. 3, comma 3 lett. b).
Quest’ultimo orizzonte temporale non può estendersi all’infinito, perché nel lungo termine tutte le imprese corrono rischi finanziari e perché l’attendibilità delle previsioni è inversamente proporzionale alla loro estensione nel tempo
Ritengo che il termine massimo entro il quale debba manifestarsi la pre-crisi sia il ventiquattresimo mese, cioè due anni. Indicazioni in tal senso giungono dall’art. 23, comma 1 lett. a), ove viene ritenuta soluzione idonea al superamento della crisi la conclusione di un contratto coi creditori idoneo ad assicurare la continuità aziendale per un periodo non inferiore a due anni.
I due anni, cioè, sono identificati quale “periodo di cura” oltre il quale non può darsi neppure la probabilità di crisi rilevante ai fini della disciplina. Vero è che il contratto con i creditori è solo una delle possibili soluzioni positive della composizione, ma è altrettanto vero che è quella caratterizzante l’istituto, le altre essendo strumenti della soluzione della crisi già previsti dall’ordinamento.
Per comprendere se un’impresa sia in pre-crisi o in crisi occorre dunque un piano di tesoreria le cui previsioni coprano i successivi 24 mesi e che rappresenti i flussi mensili; documento che, quindi, dovrebbe sempre essere predisposto dal debitore, sicché è da disattendere la parte del decreto dirigenziale che ritiene superflua la redazione del piano quando l’impresa presenti flussi finanziari tali da consentire la sostenibilità del debito (§ 5, Sezione I).
Alla luce di quanto esposto, ritengo che l’esperto, quando sentito nell’ambito della conferma delle misure protettive e del rilascio di quelle cautelari ex artt. 18 e 19, oppure delle autorizzazioni giudiziali ex art. 22 a favore di un’impresa che fronteggi una mera probabilità di crisi anziché una crisi vera e propria o un’insolvenza, dovrebbe rappresentare al giudice la sproporzione tra tali misure e il grado di difficoltà che l’impresa sta affrontando, poiché esse potrebbero avere l’effetto di restringere o falsare ingiustificatamente il gioco della concorrenza.
8. L’agire informato
La disciplina nazionale non contiene un obbligo generale di vigilanza a carico dell’esperto, bensì specifici obblighi informativi: egli deve verificare la coerenza complessiva delle informazioni fornite dall’imprenditore, chiedendo al medesimo e ai creditori tutte le ulteriori notizie utili o necessarie (art. 16, comma 2), assumere informazioni dall’organo di controllo e dal revisore legale, ove in carica (art. 17, comma 5) e consultare le banche dati della pubblica amministrazione collegate alla piattaforma (art. 14, comma 2).
È dunque evidente che l’esperto non può apaticamente attendere di essere messo al corrente dei fatti di gestione potenzialmente pregiudizievoli, ma che al contrario deve agire in modo informato; condotta che si sostanzia nell’effettuare indagini e adottare i conseguenti provvedimenti ogniqualvolta ricorrano segnali di allarme, intesi come indici di anomalie.
Non risulta dalla disciplina che egli abbia il potere di svolgere indagini dirette o effettuare dirette acquisizioni di documenti e scritture contabili su singoli fatti all’interno dell’impresa, avendo l’imprenditore soltanto l’obbligo di rappresentargli la propria situazione in modo completo e trasparente (art. 16, comma 5); tanto è confermato dal fatto che l’accesso alle banche dati attraverso la piattaforma deve essere autorizzato dall’imprenditore (art. 14, comma 2).
Vero è che il decreto dirigenziale dà facoltà all’esperto di intervistare direttamente le principali funzioni aziendali, compresa quella contabile (§ 3.2, Sezione II), ma ciò è previsto solo ai fini dell’analisi di coerenza del piano di risanamento e comunque non vi è dubbio che sia richiesto il consenso dell’imprenditore.
D’altronde sarebbe incongruo attribuire un potere diretto di indagine ed acquisizione documentale all’esperto quando tale potere non compete neppure ad un amministratore non esecutivo di società per azioni (cfr. art. 2381 c.c.), che pure è soggetto ad una più stringente responsabilità contrattuale verso la società amministrata rispetto a quella extracontrattuale dell’esperto (che debba trovare applicazione la disciplina generale extracontrattuale è ipotesi di L. Calcagno, La figura dell’esperto, in dc, 2022).
Pertanto, quando sia fondato il sospetto del compimento di atti o dell’occultamento di fatti rilevanti per i creditori, le trattative o le prospettive di risanamento, l’esperto potrà soltanto chiedere spiegazioni all’imprenditore, salvo che quest’ultimo gli abbia autorizzato il libero accesso alle fonti informative aziendali Invece il potere-dovere di cui all’art. 17, comma 5, di acquisire direttamente informazioni dall’organo di controllo o dal revisore, se in carica, è esercitabile senza la mediazione dell’imprenditore, e ciò gli offre il destro per svolgere indagini tramite l’interposta persona dell’organo di controllo, chiedendo a questi di compiere accertamenti avvalendosi dei poteri di ispezione ex art. 2404 c.c.. Infine, come detto l’esperto può liberamente raccogliere informazioni presso i creditori.
L’assenza di cooperazione informativa del debitore in presenza di segnali di allarme può comportare una diversa risposta dell’esperto a seconda del potenziale pregiudizio che essi fanno presagire, ma è comunque circostanza che ritengo non soggetta al vincolo di riservatezza di cui all’art. 16, comma 2, poiché se l’esperto tacesse sul comportamento ingiustificatamente opaco del debitore, finirebbe per agevolare trattative finalizzate ad accordi “frivoli”.
9. Piano e shit detectors
L’esperto dovrebbe appoggiare le trattative soltanto quando ritenga fattibile il piano di risanamento, ma due elementi ostacolano l’accertamento di attendibilità: la natura soggettiva delle stime e l’abuso delle forti asimmetrie informative. Alla soggettività egli può rimediare rettificando le stime del debitore secondo prudenza; quanto al divario informativo, non potendo l’esperto sottoporre l’estensore del piano al lie detector (poligrafo), dovrà effettuare alcune verifiche di coerenza con la situazione dell’impresa e col contesto in cui opera. Di seguito ne illustro alcune:
- il tasso di crescita atteso dei ricavi non dovrebbe eccedere quello del prodotto interno lordo dei mercati di sbocco dell’impresa; in altri termini, i ricavi stimati non dovrebbero correre più velocemente delle economie in cui essi vengono conseguiti (fra le base dati spicca per completezza World Economic Outlook, pubblicato ricorrentemente anche in Excel dal Fondo Monetario Internazionale). Il tasso dovrebbe essere ulteriormente ridotto in presenza di fattori strutturali di debolezza dell’impresa, ivi compresa la circostanza che esporti in paesi esteri ad elevato rischio politico o finanziario (Informazioni sul rischio-paese sono forniti da SACE );
- ogni volta che ricavi e costi attesi presentino un andamento stagionale pronunciato, il modello matematico che li tramuta in flussi finanziari dovrebbe tenerne conto, in modo da prevedere l’emersione di eventuali fabbisogni finanziari temporanei e stabilire in quale modo farvi fronte;
- le previsioni dei ricavi dovrebbero essere il prodotto di quantità per prezzi di vendita; quelle del costo dei prodotti venduti, delle quantità (risultanti dalle distinte base) per i costi di acquisto, in modo da avere valutazioni più precise dei costi di produzione; soltanto quando la numerosità delle referenze di prodotti venduti sia elevata ed essi non siano riconducibili a classi omogenee, potrebbe essere necessario o opportuno procedere alla stima sintetica dei consumi in termini di percentuali sulle vendite, in luogo dell’utilizzo della distinta base. Qualora tuttavia l’impresa abbia nel corso degli anni sopravvalutato le rimanenze per occultare perdite di bilancio, tali incidenze storiche dei consumi sui ricavi risulteranno falsate, e toccherà al debitore fornire elementi che ne consentano una determinazione realistica;
- è opportuno che il piano riporti l’incidenza percentuale dei costi rispetto ai ricavi per ogni esercizio consuntivo e preventivo, per consentire l’analisi andamentale (l’analisi “percent of” è accreditata anche dalla dottrina contabile internazionale; K. Berman, J. Knight E J. Case, Financial intelligence (revised edition), Harvard Business Review Press, 2013); riduzioni significative dei costi previsionali rispetto a quelli storici devono essere giustificati, e tanto vale anche per i tempi medi di incasso, pagamento e rigiro del magazzino;
- sebbene nel piano i costi e ricavi siano normalmente aggregati in poche macro-voci, l’esperto dovrebbe disporre dei dati consuntivi (e tendenzialmente anche di quelli preventivi) a livello di conto contabile, in modo da permettere il raccordo con la contabilità. Ciò consente analisi degli andamenti molto “granulari”;
- la veridicità della situazione patrimoniale iniziale dovrebbe essere oggetto di verifica anche sommaria da parte dell’esperto, sebbene il decreto dirigenziale addossi i controlli all’imprenditore (§ 2, Sezione II), in quanto le sovrastime dei crediti e del magazzino e sottostime dei debiti portano a irrealistiche proiezioni di sostenibilità finanziaria;
- in presenza di tassi di inflazione elevati come quelli attuali, il piano dovrebbe essere redatto a valori nominali e non invece a valori reali, cioè al lordo anziché al netto dell’inflazione, per evitare che vengano sottostimati i flussi per il pagamento dei debiti, creando così riserve occulte a favore del debitore.
Verifiche di coerenza più specifiche possono essere individuate in funzione dell’attività svolta dall’impresa, dei dati di settore disponibili, dell’analisi della concorrenza, etc.
10. Conclusioni
L’esperto dispone di almeno cinque poteri per indirizzare l’andamento e l’esito della composizione negoziata: può chiedere l’archiviazione dell’istanza, può segnalare al giudice l’opportunità di revocare le misure protettive o cautelari, può iscrivere nel registro delle imprese il dissenso rispetto ad atti o pagamenti anomali, può esprimere pareri negativi quando a ciò chiamato per legge o dal giudice, può precludere con la propria relazione finale l’accesso del debitore al concordato semplificato. Con questi poteri, l’esperto può – con giusto orgoglio – assicurare che la composizione negoziata non sia un luogo per piccoli intrighi, bensì per seri ed importanti accordi.